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Perugina, il Museo e la Scuola del Cioccolato

C’eravamo lasciati con uno sguardo su Perugia:

Ma ora parliamo di baci.
Come la celebre “Carezza in un pugno” di Celentano, anche i Baci Perugina nascono da… un cazzotto.

Nel 1922 la signora Luisa Spagnoli, per recuperare gli scarti della lavorazione delle nocciole, una granella troppo sottile, pensa di farne praline, impreziosite da una nocciola intera in cima e ricoperte da un delizioso fondente alla vaniglia. Per la forma irregolare li battezza “cazzotti”. Giovanni Buitoni cambia il nome in Baci, immaginando il cliente che entra in negozio: 

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«Signorina, mi dà un bacio?»

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«Certo, Signore, ecco a lei un Bacio.». E con una punta di malizia e romanticismo nasce il prodotto che più di tutti segnerà la storia di questa azienza.

Nel 1915 la Perugina aveva abbandonato il centro città per lo stabilimento di Fontivegge, nella periferia di Perugia, con macchine modernissime per l’epoca. In quel momento si configura il passaggio da bottega artigianale a moderna industria, innescando una serie di cambiamenti innovativi per l’epoca, tra i quali spicca il risalto dato alla comunicazione pubblicitaria.
La pubblicità è momento fondamentale anche per il Bacio, affidata per tutti gli anni ’30, all’inventiva di Federico Seneca, che trasforma il celebre “Bacio” del pittore romantico Francesco Hayez, nei due innamorati del Bacio Perugina.

La comunicazione pubblicitaria, qui come non mai ce ne rendiamo conto, segue il costume e il cioccolato diventa, di volta in volta, trasgressivo, passionale o ancora rassicurante e familiare e passa dal dono tra innamorati alla dimensione familiare.


Il Museo Storico Perugina, nato nel 1997, per i 90 anni dell’azienda, racconta questa storia.
Oggi è possibile compiere un viaggio nel cioccolato, attraverso la sua storia, la storia della Perugina, e la sua comunicazione.

Tra réclame pubblicitarie che ormai ci fanno sorridere, per i cambiamenti di stile che si sono compiuti, e testimonianze di personaggi celebri, il viaggio è affascinante.
Il primo testimonial celebre è Mussolini che nel 1923, durante una visita alla fabbrica, afferma: «Vi dico e vi autorizzo a ripetere che il vostro cioccolato è davvero squisito.». Le sue parole, prontamente appuntate dai testimoni, vengono altrettanto prontamente ritrattate perchè l’immagine tutta d’un pezzo del duce non poteva indulgere su consigli pubblicitari. 
Ci pensa Gabriele D’Annunzio a mettere in risalto la delicatezza delle confezioni.

Qui i versi di Totò per l’amato cioccolato.
La storia della Perugina è d’altronde legata a doppio filo alla Storia d’Italia: vediamo succedersi guerre e crisi, e periodi di ripresa e prosperità.
All’interno del museo è bellissimo perdersi tra le vecchie pubblicità e le foto d’epoca delle operaie al lavoro e fare il confronto con le moderne linee di produzione, attraverso la visita alla fabbrica in funzione.

Il periodo migliore per una visita, per vedere le macchine al lavoro, va dal mese di luglio al mese di marzo, quando la produzione dei prodotti è al massimo, mentre si fermano verso l’arrivo della stagione estiva.
Presso la Casa del Cioccolato non si trova solo il museo, ma anche la Scuola del Cioccolato. Qui si possono seguire corsi completi e diversi per durata e approfondimento per imparare tutti i segreti della lavorazione del cioccolato. Un mastro cioccolataio, nel nostro caso Massimiliano, mostra tutti i procedimenti ed ognuno li ripete nella propria postazione, portando poi a casa i cioccolatini prodotti.

Noi abbiamo imparato a fare i “Nudi”, ma le preparazioni sono diverse, per un’offerta variegata è un’esperienza sempre nuova. Preparando le specialità di casa Perugina si imparano i fondamenti della lavorazione del cioccolato, il temperaggio del cioccolato, la ganache, la pralina, applicabili poi in diversi prodotti finali:…poi serve solo un po’ di fantasia per inventarne di nuovi.

Se capitate in Umbria e a Perugia per una vacanza, cercate di mettere in programma una visita a questa strabiliante vetrina sulla storia e sul costume italiano.
Tutte le informazioni di visita e prenotazione le trovate a questi link:
Casa del Cioccolato 
Scuola del Cioccolato

in viaggio

Un viaggio a Perugia

Molti di voi  hanno visto su Facebook il mio biglietto d’oro per la visita alla Fabbrica di Cioccolato. Si trattava di una visita allo stabilimento della Perugina a Perugia con visita alla Casa del Cioccolato, un vero e proprio museo sull’evoluzione della Perugina nel corso di un secolo di storia.
Ho tentennato a lungo su come impostare questo racconto e alla fine ho deciso di dividerlo in due parti dedicandone una alla città di Perugia che mi ha stupito per la sua bellezza e le sue atmosfere.
Ho conosciuto Perugia alcuni anni fa, ma distrattamente, e a dire il vero ne ricordavo soltanto il vento e il freddo.
Il vento mi ha accolto anche questa volta!
Henry James, quello di Ritratto di Signora, nel 1875 scrisse nei suoi appunti di viaggio: «Forse
farò un favore al lettore dicendogli come dovrà trascorrere una
settimana a Perugia. La sua prima cura sarà di non aver fretta, di
camminare dappertutto molto lentamente e senza meta
e di osservare tutto
quello che i suoi occhi incontreranno.»

le 5 incisioni sul Torcolo di S.Costanzo
Ed è così; è questo il miglior modo per avventurarsi nel centro storico perugino. La città si sviluppa a 450 m sul livello del mare, su due colline collegate dall’antico decumano. Da un’acropoli centrale si sviluppano 5 borghi, innestati sulle 5 porte dell’antica Perugia, quella simbologia del 5 che ancora oggi fa bella mostra di sé sul famoso Torcolo di S.Costanzo, un dolce che si prepara per la festa del patrono.
Ogni quartiere si diparte poi da una via principale su cui si affacciano i vicoli stretti e ombreggiati. Ma è sopra le teste che lo spettacolo si fa più affascinante, archi rampanti e quelli che sembrano essere antichi passaggi, dove vedrei bene avventurosi spadaccini seicenteschi impegnati in rocamboleschi duelli.

La città è di fondazione etrusca, e conosce in seguito la dominazione romana e bizantina.
Del 1308 è la fondazione dell’Università, anche se corsi in legge e medicina erano attivi già nel ‘200. Intorno alla metà del XIV secolo era già tanto affermata da essere citata come una delle tre lumina in orbe, assieme a Bologna e Parigi. Oggi è la più grande Università per Stranieri in Italia.
il Portale delle Arti del Palazzo dei Priori
il duecentesco Palazzo dei Priori
la Fontana Maggiore di Nicola Pisano: da 800 anni funziona con l’acqua del Monte Pacciano

Durante il Rinascimento Perugia conosce un grande sviluppo, grazie alla famiglia Baglioni, tra il 1438 e il XVI secolo. Diventa un importantissimo centro artistico: alcuni dei nomi più celebri, Pinturicchio, il Perugino (che però era di nascita di Città della Pieve), mentre altre importanti personalità ebbero a Perugia la loro formazione, come Raffaello Sanzio e Pietro Aretino.

Sotto la dominazione del papa Paolo III Farnese, la città perde la sua autonomia civica e vive un periodo di decadenza, ma ancora pregevolissimi edifici vengono edificati. Con la costruzione della Rocca Paolina tra il 1540 e il ’43 una guarnigione papale si innesta definitivamente nella città. La Rocca, simbolo della supremazia del papato, opera di Antonio da Sangallo, si estendeva molto più di ora, su basamenti di antichi palazzi, ed oggi, nell’attraversarla sembra di percorrere una città nella città.

Per lunghi anni Perugia visse in quel clima sonnacchioso delle terre dominate dal Papato, la stessa immobilità che il marchigiano Leopardi lamentava a Recanati (anche le Marche come l’Umbria erano sotto il dominio papale.)
Il risveglio si avrà nel Risorgimento, esattamente con le stragi di Perugia del 1859 e l’annessione, l’anno seguente al regno di Sardegna. Dopo questi anni, Perugia divenne il capoluogo di una vastissima provincia dell’Italia centrale.

Nel 1922 da Perugia partì la tristemente nota Marcia su Roma, ma con la persecuzione razziale le operazioni clandestine di soccorso agli ebrei perseguitati sono coordinate qui da un perugino doc, il parroco don Federico Vincenti, a cui venne poi conferita l’Alta Onorificenza dei Giusti tra le Nazioni.

Se cercate un posto per mangiare, magari accompagnando dell’ottimo cibo con un vino di qualità scegliete la Bottega del Vino, in via del Sole 1.

Per una notte da re, scegliete il Brufani Palace e se siete fortunati potete avere una vista come questa:

E la Perugina, vi chiederete voi?
Nasce qui il 30 novembre del 1907 dallo slancio imprenditoriale di Francesco Buitoni, Leone Ascoli, Francesco Andreani e Annibale Spagnoli, in un edificio di 4 piani con 15 dipendenti.

All’inizio è una confetteria, Società Perugina per la Produzione dei Confetti, perchè il cioccolato all’epoca era considerato un bene di lusso che poteva impegnare solo parzialmente la produzione. Il primo anno non è particolarmente promettente, tanto che Francesco Buitoni affida la conduzione dell’azienda al figlio diciannovenne Giovanni. La mossa si rivela vincente: in pochi anni Giovanni, affiancato dalla moglie di Annibale Spagnoli, Luisa, fa decollare la produzione e la reputazione nazionale della Perugina e già nel 1915 la produzione si trasferisce a Fontivegge.

E subito fuori da Perugia si trova oggi la Casa del Cioccolato, museo, laboratorio, e shop.
—-la storia continua con il prossimo post—-

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Tra brodetto e zuppa di pesce, la mia ricetta e almeno 13 varianti

Italia, paese di santi, poeti e navigatori… Navigatori appunto e anche marinai e pescatori, così come cuochi, per diretta conseguenza, che cucinano il pescato. 
Il pesce, lungo le coste del nostro Stivale è cucinato in moltissimi modi diversi, ma un piatto si ritrova ovunque con alcune differenze che rendono l’assaggio una raffinata esperienza sensoriale, la zuppa di pesce.
Documentandomi per scrivere questo post ho scoperto cose che neppure immaginavo, avendo sempre vissuto sulla terraferma!! La cultura della zuppa di pesce è una vera e propria istituzione alle basi della cucina italiana.
Innanzitutto bisogna fare una distinzione tra il brodetto e la zuppa di pesce: il primo è diffuso lungo le coste di tutto l’adriatico, la seconda, con diverse varianti, allieta i palati lungo le coste del Tirreno.
Il piatto, come è semplice dedurre, era preparato per utilizzare l’invenduto dal mercato del pesce; nasce quindi come ricetta povera e di recupero, se di recupero si può parlare quando si tratta di pesce freschissimo. Di fatto ciò che si vendeva di più erano i pesci grossi, più facilmente utilizzabili in presentazioni eleganti alle mense dei nobili e ciò che rimaneva al popolo era la cosiddetta paranza: merluzzetti, triglie, piccole sogliole, crostacei di piccole dimensioni; molte volte a questi venivano aggiunti dei molluschi. 
La preparazione è di solito colorata dal pomodoro, ovviamente ciò non avveniva prima della scoperta dell’America.
È affascinante scoprire le differenze tra i diversi brodetti e zuppe di pesce, viaggiando lungo le coste italiane.
A partire dall’alto Adriatico troviamo innanzitutto il  brodetto alla triestina; secondo la ricetta il pesce va preventivamente fritto, prima di essere passato nel sughetto insaporito con aglio, cipolla e prezzemolo. Poi viene fatto riposare e riscaldato prima di essere portato in tavola.
A Venezia, precisamente nella zona di Caorle, troviamo il broeto ciozoto, tradizionalmente preparato in pentola di coccio su un fornelletto a carbone, direttamente sulle barche da pesca. Pare che al pescato misto, venisse preferito un solo tipo di pesce di laguna, il “go“, il ghiozzo.
Il brudèt ad pès è romagnolo, forse la prima ricetta tra tutte ad aver introdotto il pomodoro; essa prevede che ci sia anche qualche pesce a carne bianca, la gallinella, ad esempio, e consiglia lo Scorfano o il Coda di Rospo o il Pesce San Pietro.
Una menzione merita anche il brodetto di pesce alla fanese, marchigiano, che viene interpretato diversamente da famiglia a famiglia: vino bianco oppure aceto, pepe oppure peperoncino, aglio oppure cipolla, fanno sì che questa ricetta-non ricetta abbia un altissimo grado di personalizzazione.
In Abruzzo, a Pescara, coesistono due preparazioni a base di pesce; nel brodetto pescarese la base è fatta a crudo e man mano vengono aggiunti i pesci, dalle cotture più brevi a quelle più lunghe; nella zuppa il soffritto iniziale viene fatto a base di calamari e seppie e, particolare importante, assieme al pomodoro viene agiunto il peperone rosso tritato, dolce oppure piccante a seconda dei gusti. Anche la sequenza a tavola è diversa: la zuppa di pesce, accompagnata di fette di pane con l’aglio, è considerata un primo piatto, il brodetto può essere un primo oppure soppiantare un secondo.
Scendendo verso la Puglia incontriamo la Quatàra di Porto Cesareo, detta anche quataru ti lu pescatore o uatàra alla cisàrola, recentemente entrata a far parte dei PAT. La quatàra non è altro che il calderone di rame in cui viene preparato il sughetto in cui cuoceranno i pesci. Viene fatto rosolare insieme aglio, cipolla, prezzemolo e pomodorini, in poco olio d’oliva; il tutto si insaporisce in acqua di mare per circa due ore, poi viene aggiunto gradualmente il pesce, fino a 21 specie diverse. Il piatto viene servito con crostoni di pane fritti. La Quatàra è conosciuta anche come zuppa di pesce gallipolitana.
La zuppa di pesce siciliana prevede un’aggiunta di olive nere e di capperi al sughetto; in provincia di Catania, viene aggiunto anche un pugnetto di uva passa precedentemente ammollata. 
In Sardegna il brodino succulento in cui si è cotto il pesce viene usato per lessare la fregola, un tipo di pasta di semola di grano duro che si può assimilare ad un cous cous a grana grossa. Così la fregola in brodo di pesce diventa il primo piatto e il pesce diviene il secondo.
La zuppa di pesce napoletana ha delle indicazioni molto precise riguardo ai pesci da utilizzare: immancabili sono scorfano, tracina e lucerna; si può fare a meno di gallinella o di pescatrice; a scelta possono essere aggiunti grongo oppure murena, piccoli calamari e polpo, molluschi ma sono se freschi e “veraci”. 
Nel Lazio l’unica zuppa di pesce degna di nota è quella civitavecchiese, sfumata con il vino rosso e composta da una moltitudine di piccoli celenterati, crostacei e molluschi e l’aggiunta di scorfano e palombo.
 
Un discorso a parte merita il cacciucco livornese, vera e propria allegoria di un popolo. Negli ultimi anni del XVI secolo i Medici decisero di trasformare il piccolo villaggio di Livorno, sorto ai piedi della fortezza di Matilde, in una potenza mercantile. Emanarono le leggi Livornine (1590-1603) con le quali invitavano i
Mercanti di qualsivoglia Nazione, Levantini, Ponentini, Spagnoli,
Portoghesi, Grechi, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni,
Persiani
a stabilirsi a Livorno con la promessa di avere un alloggio o
un magazzino o una bottega dove poter svolgere la propria attività e che
garantivano anche la cancellazione dei debiti, l’esenzione dalle tasse e
l’annullamento delle condanne penali. Da quel momento Livorno divenne ante litteram una città cosmopolita e multirazziale, ben rappresentata dalla mescolanza di pesci che compone il suo piatto più tipico, il cacciucco. Il pesce e il suo sugo vengono deposti su fette di pane abbrustolito ed agliato, che pare rappresenti un must per tutte le zuppe di pesce d’Italia.
Risalendo la penisola arriviamo alla Liguria e non si può concludere questo viaggio saporito, prima di aver assaggiato il ciuppin; il nome deriva da suppin, zuppetta, ma ha un suono bellissimo e onomatopeico che ricorda il pucciare del pane in questo sughetto succulento. Viene preparato in tutta la Liguria ed ogni famiglia ne possiede una ricetta personale.  A Ponente i pomodori pelati sostituiscono i pomodorini freschi ed il soffritto iniziale viene fatto con carota,sedano, aglio e cipolla.
A questo punto vi chiederete che ricetta ho usato io per la mia zuppa. Una ricetta non ce l’ho, ma a guardar bene è un miscuglio di tutte queste usanze. 
Per prepararla armatevi innanzitutto di pazienza, non solo perchè necessita di diversi passaggi, ma fin dal momento in cui andate al mercato per comprare il pesce, perchè “siete solo in due e no, non vi serve un chilo per ciascuna varietà di pesce che avete deciso di utilizzare”!
La mia versione è molto semplificata, in pratica si tratta di pulire le diverse varietà, preparare un fumetto di pesce, preparare il sughetto di pomodoro e infine cuocere il pesce.

La ricetta: Zuppa di pesce 
250 g pomodori pelati
uno spicchio d’aglio
un peperoncino secco
vino bianco
300 g tra vongole e cozze
una decina di mazzancolle
3/4 seppioline medie
2 filettini di gallinella
1 nasellino
(di norma 2 piccoli scampi o 2 gamberoni per far scena) 
fette di pane casareccio
aglio
Ho fatto spurgare le vongole immergendole in acqua salata e raschiato il guscio delle cozze. Poi ho fatto aprire entrambe in una grossa padella su fuoco vivace, conservando il fondo di cottura, (filtrandolo dalla sabbia, se occorre).
Ho preparato il fumetto di pesce, mettendo in acqua le teste delle mazzancolle e gli scarti del pesce, coprendoli d’acqua e portandoli a bollore con un rametto di prezzemolo e 1 spicchio d’aglio. Ho lasciato bollire per mezz’ora e poi ho filtrato il tutto ed unito al fondo di cottura dei molluschi.
In una pentola ho rosolato un grosso spicchio d’aglio e il peperoncino in 4 cucchiai d’olio, poi ho aggiunto il pomodoro tagliato a pezzetti. Ho aggiunto un po’ di brodo di pesce e fatto cuocere ed insaporire per circa mezz’ora. Poi ho aggiunto il pesce cominciando dalle seppie, che necessitano di una cottura più lunga, per finire con i crostacei e i molluschi.
Ho regolato di sale e aggiunto il prezzemolo tritato cinque minuti prima di spegnere il fuoco e servire.
Ho accompagnato con fette di pane tostato, strofinato con aglio e bagnato da un filo d’olio crudo.

ai fornelli, ricette tradizionali, storia & cultura

Pìcula ad caval per l’Emilia Mon Amour, V parte

Ancora un appuntamento con l’Emilia Mon Amour, lanciato da Cecilia e Micol di Muffin e Dintorni, e ancora una ricetta di cucina emiliana ricca di storia e di tradizione. Per chi non sapesse ancora dell’iniziativa un esercito di foodblogger si è mobilitato nella raccolta di ricette emiliane o con prodotti emiliani, per la creazione di un e-book il cui ricavato sarà devoluto ad un’azienda del territorio emiliano per risollevarsi subito, dopo il terremoto.
Questo piatto, dal nome oscuro per chi non conosce il dialetto emiliano, altro non è che “piccola”, cioè tritata, di cavallo.
E’ una ricetta tipica piacentina e pare che fosse servita come pranzo ai cavallanti, ovvero ai corrieri a cavallo ottocenteschi, come dire “portarsi il lavoro a casa”… 😉
Premetto di non essere un amante della carne di cavallo, per i miei gusti un po’ troppo dolciastra, e invece questo piatto mi ha conquistata! Forse la lunga cottura fa sì che i sapori troppo stridenti vadano via e resti soltanto un piatto perfettamente bilanciato. Il segreto è far sì che la carne non si asciughi in cottura, utilizzando una pentola con il fondo spesso e di dimensioni proporzionate alla quantità di carne. Questo piatto va servito subito, appena è cotto, altrimenti diventa stopposo; non è possibile prepararlo in anticipo e poi riscaldarlo.
La pìcula ad caval si serve tradizionalmente facendo una sorta di buco centrale nella polenta calda appena deposta nel piatto e colmando questo buco con la pìcula stessa.
Visto che io l’ho cucinata in un giorno molto caldo ho rinunciato alla polenta, preparandone pochina solo per la presentazione. Ci siamo mangiati, invece, la pìcula facendo una lunghissima scarpetta con il pane e alla fine ne avremmo voluto ancora.
L’appuntamento del mercoledì con l’Emilia Mon Amour si ferma qui, ma io mi sono riproposta di provare ancora tante altre ricette di questa splendida terra… 
Non spegniamo i riflettori sull’Emilia, anzi li teniamo ben puntati, non solo – come spesso accade – durante l’emergenza, ma finchè la crisi non si sarà risolta!
Teniam bota!!

La ricetta: Pìcula ad caval

600 g circa di carne di cavallo tritata
1 cipolla tritata fine
50 g di lardo a fettine tritato finemente
250 ml di vino bianco secco
4-5 pomodori pelati
1 peperone
sale
pepe
1 rametto di rosmarino
5 foglie di salvia
un ciuffo di prezzemolo
5 foglie grandi di basilico
1 spicchio d’aglio

In un tegame abbastanza piccolo e dal fondo spesso ho messo la cipolla con il lardo tagliuzzato fine e ho fatto appassire per qualche minuto. Poi ho aggiunto la carne e l’ho fatta rosolare mescolandola bene. Dopo averla ben rigirata da ogni parte ho aggiunto tutto insieme il vino a fatto stufare sempre a fuoco bassissimo per circa 50 minuti. E’ importante che la pentola non sia troppo grande, così il vino non evaporerà troppo in fretta. Nel frattempo ho immerso i pomodori in acqua bollente e li ho pelati e poi tagliati a dadini minuti. Ho lavato il peperone, l’ho liberato dai semi e l’ho tagliato a listarelle lunghe e sottili.
Passati i 50 minuti ho aggiunto pomodori e peperone, ho aggiustato di sale e pepe e ho lasciato cuocere ancora per 50 minuti. Verso fine cottura ho preparato il trito con le erbe aromatiche e lo spicchio d’aglio, l’ho versato sulla carne, ho dato una rimescolata e ho spento il fuoco.
La picula va servita subito, con polenta o con il pane.

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