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Il peperone nel raviolo e la 65° Sagra del Peperone di Carmagnola

Oggi vi parlo di peperoni e della Sagra del Peperone che si svolge a due passi da Torino, a Carmagnola dal 29 agosto al 7 settembre e che è giunta ormai alla 65° edizione.

Il 30 agosto, grazie all’invito del Comune di Carmagnola, sono stata lì, tutta la giornata, con Turismo Torino, per conoscere un po’ di più la città, alcuni dei suoi produttori e la sua Sagra, una vera e propria istituzione per il territorio. Nel frattempo avevo già fatto il pieno di peperoni, meraviglioso frutto estivo, che insieme alla melanzana mi fa proprio impazzire e la settimana passata ho condiviso sulla mia pagina Facebook le vecchie ricette a base di peperoni.
Un capitolo tutto suo lo merita il Povron ëd Carmagnòla, il peperone di Carmagnola, prodotto in moltissimi comuni della provincia di Torino e in alcuni della Provincia di Cuneo.
Le varietà sono 4 e i loro suggestivi nomi in piemontese sono: il Bragheis, quadrato, il Long, ovvero il famoso Corno di Bue, presidio Slow Food, il Trottola, conosciuto anche come peperone Cuneo ed infine il Tomaticòt.

peperone quadrato di Carmagnola
Il peperone è giunto a Carmagnola nei primi anni del ‘900, e quindi in epoca relativamente recente, introdotto un orticoltore di Borgo Salsasio, ma qui ha trovato un microclima ideale. Era una pianta piuttosto giovane per l’Europa, avendo preso piede come ortaggio commestibile soltanto nell’800. In precedenza, dopo la scoperta dell’America era sì, conosciuto – Leonardo da Vinci, ad esempio estraeva dal peperone alcuni pigmenti per i suoi dipinti – ma apprezzato soltanto come pianta ornamentale. Questo non stupisce se si pensa ai suoi grandi frutti, colorati e gonfi come palloni.

Il tour di sabato, però, non era dedicato soltanto al peperone ma anche al territorio carmagnolese, ricco di spunti di ogni genere, e la Sagra può fungere da pretesto per una visita più approfondita alla scoperta dei suoi tesori. 
Parliamo intanto dell’Abbazia di Casanova, antica abbazia cistercense risalente nel suo impianto originario al XII secolo, situata lungo una delle vie francigene, che conobbe uno sviluppo ininterrotto fino al XVI secolo quando venne ceduta ai Savoia. Distrutta quasi completamente da un rovinoso incendio, la facciata attuale è in stile tardo barocco piemontese, mentre il resto del monastero e l’interno della chiesa si devono all’intervento di Giovanni Tommaso Prunotto, allievo di Juvarra, nella metà del secolo XVIII. All’interno perfettamente conservati stucchi di pregio e alcuni arredi, e gli affreschi del Guidobono e di Crivelli, mentre è da segnalare una Madonna con bambino del ‘400.

Menzione d’onore all’Ecomuseo della Canapa, in Borgo San Bernardo, per me un vero tesoro. L’Ecomuseo preserva la memoria storica di un territorio in cui le aziende a conduzione familiare che si dedicavano alla produzione di corde erano più di 800 nel XIX secolo. La signora Caterina, con chiarezza e passione, ci ha accompagnato nella scoperta della pianta della canapa, mostrandoci come veniva ricavata la fibra e come venivano poi prodotte le corde. La pianta di canapa veniva lasciata macerare e poi la fibra veniva separata dalla parte più legnosa. La fibra veniva “filata” con l’aiuto di un macchinario, anche se gran parte del lavoro era svolto a livello manuale, e con qualsiasi condizione atomosferica, spesso all’aperto, vista la necessità di un’area di lavoro “lunga”.

I fili ottenuti venivano poi intrecciati grazie all’utilizzo di una sorta di argano e a una spoletta. La spoletta, a seconda della corda che si voleva ottenere variava di dimensione e di scanalature.
La corda veniva poi bagnata e ripassata con una maglia di ferro che la rendeva liscia.

Il territorio carmagnolese ha rifornito di cordami la marina italiana per secoli, ma esisteva un tipo di corda per ogni uso e le lavorazioni erano molte.

Il giro nel centro storico mi ha piacevolmente stupito, gli scorci da scoprire sono davvero tanti. Ma l’orgoglio dei Carmagnolesi, assieme alla chiesa Collegiata dei Santi Pietro e Paolo, è l’interno di Casa Cavassa, con i soffitti a cassettoni tra i più belli della provincia torinese.
Peccato non aver potuto visitare la Sinagoga barocca, tra le più belle d’Italia, segno della presenza a Carmagnola di una fiorente comunità che sfiorava, prima dell’emancipazione del 1848, circa le 200 unità.

Non si poteva organizzare un tour a Carmagnola senza dare un esempio dei produttori gastronomici di eccellenza che con passione danno lustro alla città.
I produttori di peperoni, ovviamente; uno fra tutti La Ca Veja, azienda agricola e agriturismo dove abbiamo anche pranzato a base di peperone di Carmagnola, passando per il porro dolce lungo e per il coniglio grigio, tutte eccellenze del territorio.



Una nota va all’entusiasmo contagioso della signora Chiara di C’era una volta una ricetta, che produce nel suo laboratorio artigianale deliziose conserve a base di prodotti dell’orto, con un occhio alla tradizione e l’altro alla sperimentazione. Recentemente è stata aggiunta anche una linea di pasticceria secca. I colori e i profumi delle sue conserve mi hanno letteralmente conquistata e meritano sicuramente una seconda visita.

Nel centro di Carmagnola si trova, invece, la Pasticceria Di Claudio, dove sono nati il peperone candito e la torta al peperone, oggi presenti in fiera. Anche in questo caso è il sorriso contagioso del titolare a conquistarci, assieme agli infiniti assaggi di tutti i prodotti e alle sue esaurienti spiegazioni: ci dice “diffidate di coloro che dopo tanti anni di lavoro in pasticceria si dicono nauseati dalla dolcezza; vuol dire che non stanno più lavorando con passione“. Anche per noi blogger è così! 😉

Ultimo ma non ultimo, il Carmagnolotto, l’agnolotto tipico di Carmagnola. Presentatomi in anteprima da carmagnolesi DOC, doveva contenere la carne delle vacche anziane e non più produttive, le giore, insieme al porro lungo dolce di Carmagnola, e doveva essere servito nello stesso brodo di carne di vacca o direttamente, nudo, sul tovagliolo. A La Ca’ Veja abbiamo trovato una versione di magro, con la sfoglia di farina di canapa e il ripieno di ricotta di bufala e peperone.
Allora, qual è il vero Carmagnolotto?
Visto che, come al solito, non mi fermo alla prima notizia, ho voluto approfondire: quello di magro è il Carmagnolotto edission limità” nato proprio per venire incontro ai vegetariani e per essere meglio apprezzato durante i giorni ancora caldi della Sagra, mentre dall’autunno potrete gustare nuovamente quello classico di carne.

Sfoglia di canapa a parte, assomiglia al mio raviolo ai peperoni, sperimentato un paio di settimane fa e riproposto in due cene diverse, visto il suo successo.
Un gusto decisamente esplosivo, visto che i peperoni all’interno del ripieno li ho messi a pezzettini, ben rosolati in aglio e acciughe, dopo esser stati passati in forno per eliminare ogni traccia di buccia e renderli digeribilissimi.
Io li ho conditi con un sughetto leggero di pomodorini freschi. Ne rifarò altri, per congelarli, nelle prossime settimane, per gustarli anche in inverno!

La ricetta: Ravioli ai peperoni, con sughetto di pomodorini e cubetti di Macagn

per la sfoglia:
200 g di semola rimacinata di grano duro
125 g di acqua tiepida
1 pizzico di sale

per il ripieno:
200 g di ricotta vaccina asciutta
2 peperoni grandi
2/3 filetti di acciuga
1 grosso spicchio d’aglio
qualche foglia di prezzemolo
olio
sale

Per il ripieno:
Arrostire i peperoni in forno a 200° per 35-40 minuti. Estrarli dal forno e riporli in un sacchetto di plastica per alimenti e chiuderlo bene fino a completo raffreddamento. Poi liberare i peperoni da semi e bucce e tagliarli a quadrettini di un cm di lato.
In una padella, rosolare in due cucchiai d’olio lo spicchio d’aglio appena schiacciato. Abbassare la fiamma e sciogliere i filetti di acciuga, poi aggiungere i peperoni e farli insaporire per qualche minuto, regolando di sale. Aggiungere anche alcune foglie di prezzemolo tagliuzzate fini.

Per la sfoglia, impastare farina e acqua con il pizzico di sale fino ad ottenere una pasta liscia e morbida. Lasciarla riposare sulla spianatoia infarinata, coperta da una ciotola, per circa mezz’ora.

Stendere la sfoglia molto sottile, e formare i ravioli della forma che preferite, con all’interno un cucchiaino di ripieno: questa volta ho usato questo forma-ravioli, badando di inumidire i bordi prima di chiudere il raviolo.

Lessare i ravioli in abbondante acqua salata prima di condirli con il sugo che preferite.
Io ho fatto un sughetto veloce con uno spicchio d’aglio e pomodorini maturi, insaporito da un rametto di maggiorana e arricchito da cubetti di Macagn*.

*il Macagn (o Maccagno) è un formaggio piemontese d’alpeggio, DOP e Presidio Slow Food

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English Veg Breakfast con il Tondo Liscio di Pachino IGP

Torno con un’altra ricetta ispirata dai pomodori di Pachino IGP.
Questa volta il protagonista è un’altra varietà del pomodoro di Pachino,
meno conosciuta rispetto al famosissimo ciliegino, ma davvero
particolare e saporita: si tratta del Tondo Liscio di Pachino IGP.
La bacca è un po’ più grande del ciliegino, verde e profumatissima,
dalla consistenza soda e croccante. Ha un gusto delizioso, intenso,
vitaminico, quasi piccante.
Il suo migliore utilizzo, finché è verde,
è in insalata. Se non li divorate subito, quando diventano più maturi e
più morbidi possono essere utilizzati anche cotti.
Per la mia ricetta ho preso ispirazione dalla classica colazione anglosassone, normalmente composta da salsicce e bacon accompagnata da frittelle di patate e pomodori grigliati.
Ho scelto di isolare solo la parte vegetariana dell’english breakfast
per creare un contorno coloratissimo: asparagi sbollentati e conditi
con olio extravergine e aceto balsamico, pomodori Tondo Liscio di
Pachino IGP tagliati a fette e grigliati ed infine le potato hash, saporitissime frittelle di patate grattugiate, fuori croccanti e dentro morbide, che più semplici e golose non si può!
Con un contorno così si colora anche la più banale fettina in padella!
La ricetta: Contorno “English Veg Breakfast”: pomodori grigliati, asparagi e potato hash
orientativamente:
4 pomodorini Tondo Liscio di Pachino IGP a persona
5 asparagi a persona
1 patata a persona
Sbollentare in acqua salata gli asparagi. Poi metterli da parte.
Nel frattempo pelare e grattugiare 1 patata a persona, strizzare tra le
mani la polpa ottenuta e formare tante piccole polpette schiacciate.
Tagliare in 3 o 4 fettine i pomodori e lasciarli scolare per una decina
di minuti. Poi passarli sulla griglia bollente o su una padella
antiaderente, unta con un foglio di carta assorbente leggermente
imbevuta d’olio.
Friggere le frittelle di patate in olio di arachidi bollente.
Per comporre il piatto, mettere alcuni
asparagi, alcune fette di pomodoro e le potato hash. Condire con olio e
aceto gli asparagi e con un pizzico di sale i pomodori grigliati e le
frittelle di patata.

Se cerchi altre ricette con il pomodoro di Pachino IGP:

Tomino piemontese con confettura di pomodoro Ciliegino di Pachino IGP agli agrumi e cardamomo

Focaccia multicereali al nero di seppia con ciliegini e origano

ai fornelli, ricette originali

Tomino piemontese con confettura di pomodoro Ciliegino di Pachino IGP agli agrumi e cardamomo

C’è un posto speciale nella punta più meridionale della Sicilia dove vengono coltivati pomodori così buoni da essere famosi in tutto il mondo. Ci troviamo a Pachino e nei suoi dintorni, nell zona tra Ispica, Marzanemi e Portopalo,
in un ridottissimo fazzoletto di terra calcareo-argillosa, a 65m sul
livello del mare, dove regna un clima mediterraneo, arido e ventoso,
perfetto per la coltivazione del pomodoro.
pachino_scritta
A fare la differenza con altri luoghi, però, è il sole: secondo l’ENEA è qui che le piante di pomodoro possono godere della “luce più splendente d’Italia”, che fa maturare frutti dolcissimi.
Un’altra qualità, che ha fatto il loro successo, è la resistenza di
questi pomodori, che permette loro di arrivare in uno stadio di perfetta
conservazione anche su mercati molto lontani dal luogo di coltivazione.
Quest’anno il Consorzio di Pachino IGP,
nato nell’agosto 2002 per tutelare il prodotto e vigilare sugli usi
impropri del suo nome, si fa promotore di una campagna volta a
promuovere tutta l’economia agricola del sud est siciliano. Una buona ragione per conoscere meglio il pomodoro di Pachino nelle sue diverse qualità, racchiuse sotto la stessa IGP. Oltre al più conosciuto ciliegino, troviamo il tondo liscio, il tondo liscio a grappolo e il costoluto.
Oggi approfondiamo la conoscenza del ciliegino:
piccole bacche dolcissime, disposte a grappolo a spina di pesce; si
conserva perfettamente e ha una bacca molto soda e perfettamente
attaccata al picciolo.
Naturalmente è perfetto per essere
consumato crudo, ma io ho pensato ad un’alternativa e, vista la sua
dolcezza insuperabile, ne ho fatto marmellata!
La ricetta prende ispirazione da una creazione di Nicola Michieletto, ma io ho cambiato gli aromi.
La ricetta: Tomino piemontese con confettura di pomodoro ciliegino di Pachino IGP al profumo di agrumi e cardamomo

(per 2 persone)
2 tomini piemontesi
2  cipollotti primaverili
qb. pomodorini ciliegino di Pachino IGP
qb. olive nere
olio extravergine di oliva
sale
qualche goccia di aceto balsamico
confettura di pomodori ciliegino di Pachino IGP preparata come segue:

250 g di pomodorini ciliegino di Pachino IGP
100 g di zucchero di canna
la buccia grattugiata di mezza arancia
la buccia grattugiata di mezzo limone
i semini di 7 bacche di cardamomo
1 pizzico di sale
il succo di mezzo limone

Per la confettura: sbollentare i pomodorini, dopo aver fatto un’incisione a croce, poi pelarli.
Tagliarli in 4 e metterli in un pentolino a fuoco basso assieme allo
zucchero, le bucce degli agrumi, i semini di cardamomo, il sale e il
succo di limone. Far sciogliere tutto lo zucchero e portare ad
ebollizione. Lasciar inspessire la confettura e se sono rimasti dei
pezzettini frullare il tutto con il minipimer. Si può passare al
setaccio o lasciare com’è.
Deporre nel piatto un po’ di confettura; accanto disporre i pomodorini tagliati in quarti e conditi, e le olive nere.
Far grigliare il tomino, avvolto da carta forno, finchè il centro non
risulta sciolto, e i cipollotti tagliati a metà. Deporre il tomino sulla
confettura e i cipollotti a lato e servire.
ai fornelli

Potage de Morteau, la zuppa più famosa della Franca-Contea

Questo mese, per il calendario La France à table, ci troviamo nella regione della Franche Comtée.

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È una delle poche regioni attuali che corrispondono in parte con un’antica provincia del Regno di Francia, e ciò spiega la forte identità regionale dei suoi abitanti. Prima del 1478 si parlava di una grande Contea di Borgogna, tale da rivaleggiare con il regno di Francia; successivamente ad una divisione interna, si cominciò a parlare di ducato di Borgogna e di Franca Contea.
Terra di confine fin dai tempi più antichi (e tutt’ora confina per ben 230 km con la Svizzera) si trovò spesso in situazioni di guerra e contesa fra popoli ed appartenne di volta in volta al Sacro Romano Impero, al regno di Francia e al ducato di Borgogna, fino al 1678, quando divenne definitivamente francese, dopo un trattato e dopo le perdite della sanguinosa “Guerra dei 10 Anni”.
In Franca Contea troviamo anche alcune attrazioni turistiche che da sole giustificherebbero il viaggio. 
il semicerchio realizzato
La prima è un’opera architettonica di Ledoux, uno dei padri e dei teorizzatori del neoclassicismo assieme a Boullée.
A lui viene commissionato il progetto per le Saline Reali di Arc-et-Senans, all’epoca di basilare importanza, in quanto il sal gemma era fondamentale per la conservazione dei cibi, ma anche per la produzione del vetro, e la gabella sul sale era una delle tasse più impopolari in Francia e probabilmente una di quelle che più scatenò il malcontento dei cittadini alla vigilia della Rivoluzione Francese (…assieme alle storia delle brioches, ovviamente! 😉 )
il secondo progetto
La parte di progetto realizzata, oggi Patrimonio Mondiale dell’Unesco, costituiva solo il nucleo centrale della città che si sarebbe andata a formare. Ledoux, al di là della scenografica impostazione con i colonnati classici, davanti agli edifici, e la forma a circolare del complesso principale, che richiamava le forme greche, aveva previsto una vera e propria città attorno alle Saline, con le abitazioni per gli operai e tutti i servizi, il primo tra tutti, seguito a ruota dai teorizzatori ottocenteschi di villaggi operai accanto alle fabbriche.
Forse il progetto di Ledoux era animato più dall’estremo bisogno di controllo per il prodotto finale, il sale, monopolio di stato e preziosissimo, che da veri propositi filantropici, ma resta un esempio mirabile e perfettamente recuperato, dopo il degrado visto dal 1895 al 1920.
Notre Dame du Haut à Ronchamp
La seconda attrazione è per gli appassionati di architettura contemporanea un vero caposaldo; parlo dell’opera di Le Corbusier, la Cappella di Notre Dame du Haut, costruita a Ronchamp, sul sito dove già in passato si trovava una cappella dedicata alla Vergine. Lo stile non proprio è fra i miei preferiti: essa, progettata e costruita tra il 1950 e il ’55 fa parte della corrente del bèton brut, il calcestruzzo grezzo, poi anche denominata brutalismo. Pochi fronzoli e tutta sostanza, insomma e l’utilizzo di materiali moderni e scarnamente essenziali.
Dal punto di vista della gastronomia, i prodotti tipici della Franche-Comtée sono famosi in tutto il Paese. 
Una breve parentesi la meritano i vini; siamo al confine con la Borgogna e il paragone sembrerebbe scontato, ma in realtà è la Franche Contée a fare la parte del leone, la sola regione al mondo che produca eccellenze in tutte le diverse tipologie di vino: i rossi, i bianchi, i rosé, i gialli e i vini passiti.
Ci sono poi i prodotti tipici. Moltissimi formaggi poichè ci troviamo in una regione a forte vocazione casearia. La Montbéliarde è la razza bovina a prevalenza lattiera più diffusa in Francia, e con il suo latte si producono i principali AOC francesi, tra cui il Comté.
La Belle de Morteau altro non è che una salsiccia di montagna, prodotta sopra i 600 metri ed affumicata e fa concorrenza alla sua corregionale Salsiccia di Montbéliard, che è un po’ più magra e sottile e un po’ meno affumicata.
Per tradizione, la Belle de Morteau viene esposta al fumo di trucioli di legno di ginepro e di altre piante resinose, per almeno 48 ore in tuyé, il nome caratteristico ed intraducibile dei focolari di montagna attorno ai quali si svolgeva la vita quotidiana e dove si affumicava la carne per la conservazione: un processo che durava da qualche settimana ai tre mesi durante l’anno.
Dal 2010 la Belle è diventata IGP e si riconosce per il tassellino di legno che ne chiude un’estremità e per la medaglietta che fa riferimento al produttore. I maiali, tutti nati ed allevati in zona, vengono alimentati in modo tradizionale, senza mangimi.

La ricetta, presa a grandi linee da epicurien.fr e poi modificata nelle dosi, presenta verdure diverse a seconda della stagione, ad esempio ci sono i fagiolini e gli spinaci che io non ho usato. In Francia utilizzano anche la creme fraiche che io ho omesso e una maggior quantità di latte e burro, che io ho ridotto. Ma ricordiamo sempre che si tratta di una zuppa di montagna, energetica e corroborante, sebbene la base sia di verdure povere.
Per quanto riguarda la salsiccia ho cercato una salsiccia affumicata di diametro grossino, circa 3 cm e l’ho lessata in acqua bollente, poi l’ho tagliata a fette e servita di completamento alla zuppa.
La ricetta: Zuppa al formaggio e Salsiccia di Morteau

(per 4 persone):

1 salsiccia di Morteau (o una salsiccia di maiale affumicata)
400 g di patate sbucciate e tagliate a dadi
400 g di cubetti di carote, porri, e cipolla
1 scalogno
100 g di cavolo cappuccio tagliato a striscioline
200 g di latte intero (in origine 500g)
30 g di burro (in origine 40 g di burro e 100 ml di creme fraîche)
1 cucchiaio d’olio 
100 g di Comté grattugiato (si può sostituire con un formaggio di montagna, come la fontina o la toma)
erba cipollina
sale
pepe
noce moscata
In una casseruola ho messo l’olio e il burro, li ho fatti scaldare e vi ho versato tutte le verdure, facendole insaporire per dieci minuti.
Ho ricoperto il tutto d’acqua ed ho aggiunto il latte.
Lasciar cuocere, rimestando di tanto in tanto per circa 40 minuti, senza far bollire, facendo appena fremere il brodo e il latte.
Nel frattempo bollire la salsiccia e tagliarla a fette spesse 2 cm e grattugiare grossolanamente il formaggio.
Passati i 40 minuti, aggiustare di sale, pepe e noce moscata, aggiungere il formaggio grattugiato e rimestare per farlo sciogliere, poi distribuire nelle fondine, completando con l’erba cipollina e le rondelle di salsiccia.

P { margin-bottom: 0È tutto! E se volete provarla, aspetto la vostra versione!
 

in viaggio

La cucina campana di Luigi Lionetti – serata al Caffè Platti

Mercoledì sera ho partecipato alla serata campana al Caffé Platti Luigi Lionetti, chef executive del ristorante Punta Tragara di Capri.
Avevo già introdotto la serata con un post, ma ora, dopo aver  degustato i piatti, voglio dedicarne uno alla cucina e ai prodotti campani utilizzati, tutti prodotti di eccellenza valorizzati al meglio.
La cucina di Luigi Lionetti è semplice; questo non vuol dire sbrigativa, è al contrario accorta e curata, ma in ogni piatto ci sono pochi ingredienti, accostati al meglio, senza la smania di strafare che spesso va di moda tra alcuni chef, che cercano accostamenti arditi con la sola voglia di stupire.
Ciò che cerca Luigi invece è l’estrema valorizzazione del gusto con prodotti di alta qualità e piatti che incarnano il sole della sua terra; nessuna ricetta particolarmente elaborata, piuttosto le ricette della tradizione, riprodotte con cura e attenzione maniacale per il risultato finale che deve essere pulito nel gusto ed impeccabile nella presentazione.
La serata campana proposta da Platti, per il suo percorso di valorizzazione e scoperta della cucina italiana, inizia nel segno dell’eleganza…

…e con profusione di limoni di Sorrento accostate ad incantevoli ceramiche di Vietri.

Il momento dell’aperitivo vede dei frittini misti, serviti in un cuoppo che rievoca quello classico di carta paglia (una volta veniva usata carta di giornale – vi ricordate delle pizzelle fritte e de L’Oro di Napoli?) del cibo da strada, accostato a mozzarelline e ad altri prodotti dell’arte casearia campana.

Lo stomaco freme e finalmente ci sediamo a tavola!

Iniziamo con una zuppetta di fagioli di Controne con scarola saltata e polpo verace alla griglia.

A fare la parte del protagonista il fagiolo di Controne, prodotto nel salernitano e tra le 100 specialità italiane da salvare per Slow Food. Si tratta di una produzione ridottissima, non fatta su larga scala e  dalle qualità eccellenti del prodotto: buccia molto sottile, ammollo breve, chicco che non si spezza in cottura, digeribilità altissima.
Ad accompagnarlo la scarola – il cuore, a dire il vero – tenerissima e con solo una punta di amarognolo, anch’essa facente parte della tradizione partenopea a tavola, e il polpo verace, semplicemente scottato sulla griglia, con tutto il suo sapore, senza inutili sbavature.

Si prosegue con il baccalà confit, adagiato su ricotta di bufala, pomodoro di Corbara e profumo di limoni di Sorrento.

Il baccalà ha consistenza e spessore perfetti. La ricotta arriva da Barlotti, un produttore eccellente, con più di 100 anni di storia; è insaporita e soprattutto profumata dalla scorza di limone di Sorrento, una varietà particolarmente nota proprio per la fragranza intensa, coltivato nell’area di Sorrento, probabilmente già in epoca romana, visto che è raffigutato fedelmente nelle pitture pompeiane. Ancora una nota sul pomodorino di Corbara, dalla caratteristica forma allungata, anche questo originario della costa sorrentina e amalfitana. Coltivato in zone collinari e con l’ausilio di pochissima o addirittura nessuna irrigazione, viene consumato fresco o conservato in grappolo per il consumo invernale.

Il piatto successivo è il risotto mantecato all’olio extravergine di Nocellara del Belice, carciofi arrostiti di Paestum e seppie.

L‘olio siciliano del Belice è anch’esso DOP, con sentori di mandorla e carciofo, quindi perfetto per mantecare il risotto ai carciofi di Paestum, varietà coltivata in zona, dopo le bonifiche operate negli anni ’20 del ‘900. I carciofi sono semplicemente arrostiti, per conservare il loro gusto, con una punta di affumicato.

L’altro primo piatto è rappresentato da I Ravioli Capresi.

Il ripieno è composto da caciotta di latte vaccino e maggiorana; la salsa è un leggero e profumatissimo sughetto di pomodoro Spugnillo del Vesuvio, una delle varietà più preziose di pomodorini a grappolo. Le bacche sono allungate e presentano il caratteristico pizzo; la polpa è soda e la buccia coriacea. Detto anche spungillo o spunzillo, nome che fa riferimento alla particolare conservazione che viene effettuata formando degli spunzilli, appunto, o piennoli, che vengono posti in luoghi ventilati e che permettono di degustare il pomodoro, che si conserva a lungo grazie anche alle alte percentuali zuccherine, fino alla primavera successiva.


Il secondo è di pesce: branzino d’amo scottato sulla pelle alle erbe aromatiche con variazione di verdure di stagione e loro clorofilla.

Un filetto carnoso e sodo, adagiato su un verdurine appena stufate, broccoletti e patate.


Finalmente il momento dell’agognato babà al rhum.

Servito su una crema chantilly e insaporito con fragoline e altri frutti di bosco. La lievitazione perfetta e la mollica alveolata lo rendono leggerissimo ed è impossibile rinunciarci, anche dopo tutte le altre portate.

La serata si conclude con la Torta Caprese, in versione mignon, accompagnata da gelato al latte di bufala.

Per chi non la conoscesse la Caprese è la torta tipica di Capri, composta in parti uguali da cioccolato fondente e farina di mandorle, e resa aerata dall’albume montato a neve. Qui le scagliette di mandorle e il goloso gelato al latte di bufala, bilanciano il caratteristico gusto amarognolo e ci fanno concludere in vera dolcezza.

Impeccabili i vini che hanno accompagnato i piatti, ed impeccabile la direzione di Andrea Sabbia che introduce il nuovo corso del Caffé Platti e presenta il giovane chef protagonista della serata.

Ci lasciano andar via con un piccolo e delizioso omaggio e con tanta curiosità per il prossimo appuntamento, verso la metà di febbraio, con la cucina lucana ed un altro appassionato chef emergente.
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La carne bovina di razza piemontese

Vi ho già parlato della giornata del 14 settembre dove, a Busca, ho potuto partecipare alla Sagra del Toro allo Spiedo e al press tour ad essa dedicato.
Questa volta, però volevo lasciare qualche nota in più riguardo alla carne di Razza Piemontese.
In casa consumiamo decisamente poca carne, ma ci piace e, proprio perchè il consumo è così selettivo, vogliamo scegliere il meglio. 
Conoscere tutte le caratteristiche della razza bovina piemontese ci ha aiutato in questo senso e abbiamo definitivamente capito la fortuna di avere una vera eccellenza ad un passo da casa.
Mi sono innanzitutto documentata sulle varie razze ed ho scoperto che è la Piemontese la razza bovina più diffusa in Italia, un tempo utilizzata anche per il latte e per il lavoro nei campi, ed oggi essenzialmente per la carne.
Per la loro conformazione i bovini di Razza Piemontese hanno una resa di carne superiore alle altre razze, grazie alla ridotta dimensione delle ossa e al basso contenuto di grasso di copertura e tessuto connettivo.

Durante la visita di un allevamento tipico della zona di Busca, ci è stato spiegato che i bovini piemontesi hanno bisogno, per la loro corretta crescita, di stalle di tipo tradizionale, quelle che vediamo nelle immagini sono strutture risalenti agli anni ’20 del XX secolo. L’ambiente deve essere tranquillo e silenzioso e già questo fa capire che un allevamento di tipo intensivo non potrebbe conciliarsi con la salute di questi animali.

I controlli sono rigorosissimi anche per quel che riguarda il tipo di cibo che viene somministrato agli animali e solo dopo una lunghissima serie di controlli la carne si fregia del marchio COALVI, consorzio di protezione della razza piemontese.

Ma non è finita perchè l’etichetta con tutte le informazioni sulla carne, accompagna il prodotto sezionato fin sulla nostra tavola. Dalle informazioni presenti sulle etichette, nei preconfezionati, o leggibili sugli scontrini, possiamo sapere esattamente da dove proviene la nostra bistecca.

Per prevenire le polemiche vi confesso che è sempre difficile parlare di carne, poichè il modello di vita vegetariano è sempre più diffuso. Io ho il massimo rispetto per questo tipo di scelta e limito al massimo, per ragioni ambientaliste, il mio consumo di carne, che in media è di una o due volte alla settimana. Però è importante poter scegliere un prodotto che sappiamo provenire da bovini che hanno vissuto la loro vita nelle migliori condizioni possibili per ciò che riguarda pulizia, tranquillità e spazio vitale.

Nella carne di Razza Piemontese sono poi presenti altre virtù.

Innanzitutto una bassa presenza di grassi

L’indice aterogenico, indicatore delle probabilità della comparsa di ateroscelosi, è per la carne di razza piemontese paragonabile a quello di alcuni tipi di pesce, come l’orata selvatica, il caviale e la trota fario.
Per quanto riguarda il colesterolo i dati sono piuttosto bassi in tutti i tagli di carne, tutti sotto i 62mg/100g di carne e per il sottofiletto, perfetto per le bistecche, cala a 48,8mg/100g di carne.

Naturalmente un grande ringraziamento va a TerraViva che mi ha permesso di scoprire tutte queste informazioni. 
Con queste indicazioni in più spero che diventi più semplice scegliere il meglio, sempre limitando il consumo di carne a quella di ottima qualità e scegliendo un’alimentazione quanto più possibile varia e ricca di verdure e cereali.

ai fornelli, buffet salato, storia & cultura

Tarte salata alle tre farine con cavolo cappuccio, pere e Roquefort. La storia del Roquefort, pregiato formaggio francese e una torta salata

Rocquefort
In lingua occitana è il Rocafort, ma ovunque è conosciuto come Roquefort ed è, a detta di molti, uno dei formaggi più buoni al mondo, proclamato da Diderot come       «le roi des fromages».
 

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ai fornelli, ricette originali

Tortelli di melanzana di Rotonda e pane di Matera, al ragù di polpo con briciole croccanti di pane e peperone di Senise

Ed ecco finalmente anche la mia ricetta per il contest #iochef che mi ha dato la possibilità di conoscere la cucina lucana e ad alcuni dei suoi prodotti. Di Basilicata si parla davvero poco ed approfondire il discorso non fa male quando si possono incontrare in questa terra alcune vere eccellenze.

L’occasione per assegnare alla cucina lucana il giusto posto che merita, sarà il 27° congresso nazionale della Federazione Italiana Cuochi (FIC), organizzato dall’Unione Regionale Cuochi Lucani, che si svolgerà a Metaponto dal 7 al 10 ottobre.

Per elaborare una ricetta avevamo a disposizione questi prodotti, arrivati via posta:  
Pane di Matera IGP
Olio evo di Oliva Majatica
Cacioricotta o ricotta lucana
Melanzana rossa di Rotonda DOP
Crema di melanzana rossa di Rotonda DOP
Fagioli di Sarconi IGP 
Ceci neri di pomarico
Pomodoro secco Cietticale di Tolve 
Ficotto di Pisticci
 
Peperone di Senise IGP.
 

La ricetta doveva contenere obbligatoriamente almeno uno di questi pesci di stagione:
Mormora
Seppia
Cefalo
Gallinella
Sauro
Pesce serra
Sciabola o bandiera
Triglia agostinella
Polpo
Pettinessa
Palamita
Rombo
Lucerna o pesce prete

Per il mio piatto ho scelto la melanzana rossa di Rotonda DOP, la mollica del pane di Matera IGP, un peperone crusco di Senise IGP sbriciolato, l’olio extravergine di Oliva Majatica e il polpo.
Quando ho condiviso l’immagine della melanzana rossa di Rotonda IGP sui social network molti sono stati ingannati dal colore e hanno creduto di avere davanti un pomodoro. Se la si osserva da vicino, la melanzana di Rotonda ha anche delle sfumature verdi, e tagliata ha una polpa soda e chiarissima, più chiara di quella delle melanzane violette, che non annerisce ed è ricca di semini. Questo ortaggio ha giustamente un’aria un po’ selvatica ed esotica, poichè è stato importato dall’Africa e reimpiantato nel Parco del Pollino, agli inizi del ‘900 da alcuni contadini lucani che avevano partecipato alle missioni coloniali. La sua coltivazione è rimasta a tal punto circoscritta da essere “riscoperta” solo nel 1992 dal CNR. Intorno a Rotonda, invece, è la melanzana per eccellenza dalla quale si ricava anche una deliziosa conserva in crema.
Il pane di Matera IGP si è guadagnato il podio tra i pani più buoni d’Italia; forse merito del lievito madre e della ritualità dell’impasto, forse merito del grano duro utilizzato. Nel 1636 Tommaso Stigliani diceva che Matera “in certi tempi dà grano a tutto il Regno”. La storia racconta di un’economia di stampo feudale dove vigeva ancora il latifondo e dove i contadini e i pastori abbandonavano i paesi per quindici giorni per lavorare nelle immense distese di campi. Ogni due settimane tornavano dalla famiglia per fare un cambio di biancheria e per il pane, che doveva poi mantenersi buono per altri quindici giorni. Per queste ragioni la cura e la ritualità nel fare il pane era ed è importantissima e quasi magica: la lievitazione avveniva nel letto matrimoniale, dal lato dell’uomo, addetto alla “crescita” della vita.
Il peperone di Senise IGP ha la particolare caratteristica di essere molto adatto all’essicazione naturale al sole, in primis perchè ha una polpa molto sottile, in secondo luogo perchè il peduncolo non si stacca neppure con l’essiccazione. Oltre che semplicemente essiccato in caratteristici grappoli a spirale, che raggiungono a volte i due metri di lunghezza, veniva conservato anche già sbriciolato; in dialetto il termine Zafaran rievoca proprio quello del prezioso zafferano. I peperoni di Senise vengono anche fritti per pochissimi secondi in olio bollente: in questo modo diventano “cruschi”, uno snack antelitteram!
L’olio extravergine di oliva Majatica rappresenta uno stretto legame con il territorio, poichè questo particolare tipo di ulivo attecchisce solo in terra lucana. Si è già provato ad impiantarlo altrove ma senza successo. Il sapore dell’olio è particolarmente delicato, secondo me adatto ad un consumo a freddo, soprattutto su piatti di pesce. Nella mia ricetta l’ho usato anche per cucinare. Da ricordare anche l’oliva nera al forno, sempre di Majatica, presidio SlowFood e prodotte fin dal XVIII secolo.
 
Per la mia ricetta sono partita dal presupposto di un incontro nord-sud in cucina.
La
pasta ripiena del nord Italia, ma con una sfoglia a base di solo grano duro
del sud si riempie e si condisce con i prodotti tipici della Basilicata e
viene impreziosita da un ragù dal sapore intenso a base di polpo. Le note croccanti sono date dalla  mollica di pane di Matera fritta e dalle briciole di peperone di Senise IGP.

La ricetta: Tortelli di melanzana di Rotonda e pane di Matera, al ragù di polpo con briciole croccanti di pane e peperone di Senise.
per il ragù di polpo:
mezzo polpo (circa 400 g)
5-6 pelati
1 spicchio d’aglio pelato
olio extravergine di oliva Majatica
vino bianco 
sale

per la sfoglia:

200 g di semola di grano duro
sale
acqua tiepida
per il ripieno: 
5 melanzanine di Rotonda
farina
due-tre cucchiai di sugo del ragù di polpo (senza polpo)
una fetta di pane di Matera spessa 2 cm
olio per friggere
sale

per la guarnizione:
1/2 fetta di pane di Matera da sbriciolare
1 peperone crusco
1 cucchiaiata di melanzane fritte in precedenza

Ragù di polpo:
il polpo era decongelato e quindi non ho avuto bisogno di batterlo. 
Ho fatto dorare uno spicchio d’aglio in due cucchiai di olio di oliva Majatica. Poi ho messo il polpo in pentola e l’ho fatto rosolare a fuoco vivace. Ho sfumato con due dita di vino bianco e poi aggiunto i pelati tagliuzzati piccoli con la loro acqua. Ho lasciato cuocere, aggiungendo un poco d’acqua quando necessario, a fuoco molto basso per un’ora e mezza. Poi ho assaggiato il sugo e regolato di sale. Ho spento il fuoco e fatto raffreddare.
Tolto il polpo dalla pentola, per eliminare la pelle più dura della testa e dei tentacoli più grossi, e l’ho tagliato a pezzettini piccoli. 
Ho aggiunto un poco d’acqua al sugo e vi ho immerso una fetta di pane di Matera per ammorbidirla e l’ho tenuta da parte.
Ho mescolato nuovamente i pezzettini di polpo al sugo e tenuto da parte fino al momento di condire i tortelli.

Ripieno:
ho tagliato le melanzane a dadini, cosparse di poco sale e lasciate riposare per 5 minuti, mentre preparavo l’impasto per la sfoglia; poi le ho passate nella farina e fritte in olio di arachidi. Ne ho tenuto una cucchiaiata da parte per la decorazione, mentre ho mescolato le altre con la mollica di pane ammollato e sbriciolato e un cucchiaio di sugo del polpo.

Sfoglia di grano duro:
ho messo la semola sulla spianatoia, con un pizzico di sale, ed ho aggiunto acqua tiepida mescolando prima con una forchetta e poi con le mani fino ad ottenere un impasto consistente, lavorabile, ma asciutto. L’ho fatto riposare mentre friggevo le melanzane e ultimavo il ripieno.
Ho steso la sfoglia sottile con la macchinetta e vi ho ricavato dei cerchi da 8 cm di diametro.
Ho formato i ravioli con questo metodo:

Finitura:
Ho rotolato in un padellino alcune briciole di mollica di pane di Matera in un cucchiaino di olio di Majatica fino a che non era croccante.
Ho cotto i tortelli in acqua bollente e salata e li ho conditi con il ragù di polpo, rotolandoli in una padella larga, con delicatezza per 1 minuto, aggiungendo un filo di olio di majatica per inumidire.
Ho completato il piatto con briciole di pane di Matera fritto in padella, le melanzanine tenute da parte e un peperone crusco sbriciolato.

Con questa ricetta, come detto sopra, partecipo al contest “Io Chef”

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Gli gnocchetti di caprino di Paola e #piemonteliguria con BITEG

Persa e sballottata tra tutti gli eventi mi sembrano passati secoli dall’ultima ricetta pubblicata. Mentre riprendo le fila del discorso e metto a posto milioni di foto scattate che forse non verranno mai pubblicate mi preparo ad un nuovo entusiasmante viaggio.
Ancora una volta (oggi!) partirò alla scoperta della mia regione con un press-trip d’eccezione, organizzato da BITEG per la stampa italiana ed estera
Vi ricordate di Nice To TwEAT You? Ecco, proprio in quell’occasione avevo vinto il biglietto dorato per la fabbrica della felicità enogastronomica: quasi 4 giorni di visite, degustazioni, laboratori culinari e cene speciali.
L’hashtag dell’evento è #piemonteliguria ed è così che potrete seguirmi su Twitter, mentre degusterò per voi, visitando posti splendidi.
Però non volevo lasciarvi senza una ricetta, e ne approfitto anche per tessere le lodi di Paola, che ogni volta mi stupisce con piatti veloci da preparare ma anche eleganti e sofisticati. È il caso degli gnocchetti di farro e caprino con scorzette d’arancia e pistacchi: ditemi voi se non riuscite già ad assaporare l’armonia di questi gusti… 
Lei li ha riproposti anche con gli scampi, io, dopo averli scoperti sul suo blog, non ho resistito al volerli provare, non solo come aperitivo, ma come primo piatto. Li ho conditi con asparagi insaporiti in padella e salame strolghino di culatello a striscioline; la seconda volta ho sostituito il salame di culatello con la coppa piacentina, in entrambi i modi il piatto è una vera delizia. Scegliete un tomino fresco di pura capra, saprà ripagarvi!! 😉

La ricetta: Gnocchetti di farro e caprino con asparagi e coppa piacentina
150 g di farina di farro
150 g di caprino fresco
2 cucchiai di parmigiano grattugiato
1 pizzichino di sale
200 g di asparagi (crudi) 
4/5 fettine di coppa piacentina (o strolghino di culatello) tagliate a striscioline
olio
sale
1 pezzetto di cipolla tagliata a brunoise (circa un cucchiaio)

Ho pulite gli asparagi e li ho tagliati a rondelle spesse 1 cm, lasciando da parte tutte le punte.
Ho messo in una padella capiente la cipolla a dadini minuscoli e due cucchiai d’olio, l’ho fatta dorare e poi ho aggiunto gli asparagi (rondelle) facendoli insaporire. Ho bagnato con poca acqua e fatto proseguire la cottura, aggiungendo dopo 10 minuti anche le punte. Ho regolato di sale e pepe e lasciato cuocere finchè non erano morbide.
Nel frattempo ho messo a bollire l’acqua per lessare gli gnocchetti.
Ho preparato gli gnocchetti, mescolando insieme la farina di farro, il pizzico di sale, il caprino e il parmigiano grattugiato. Si forma prima un impasto sbricioloso, come una frolla, poi, pian piano, prende consistenza e diventa lavorabile. Ho preso delle porzioni d’impasto, formato dei serpentelli e poi tagliato ognuno con il coltello a pezzettini grossi quanto un’unghia.
Ho lessato gli gnocchetti in acqua salata per qualche minuto, calcolato dopo che sono saliti tutti a galla, poi li ho scolati e fatti saltare in padella insieme agli asparagi, aggiungendo alla fine anche la coppa (o il salame) tagliata a listarelle.

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