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Pane dolce allo zafferano per Cerealia Wellness

Il nome dello zafferano deriva dal latino safranum e dall’arabo zaʻfarān (زعفران), giallo, che alludeva alla colorazione che gli stimmi, che in natura si presentano rosso-arancio vivo, davano alle stoffe per le quali venivano utilizzate come colorante.
Proprio con la funzione di trasmettere il colore acceso, che ricordava quello del sole, veniva utilizzato anche dagli egizi, per le bende delle mummie o per le tuniche dei sacerdoti e degli alti funzionari.
In epoca relativamente più recente Alessandro Magno lo adoperava come cicatrizzante per le ferite che si procurava in battaglia e Cleopatra utilizzava gli stimmi del prezioso fiore per regalare alla propria pelle una sfumatura dorata, un velo di autoabbronzante ante-litteram.
Nel frattempo in Grecia e a Roma erano “fiorite” – è proprio il caso di dirlo – numerose leggende riguardo la pianta e i suoi vivaci stimmi. Una di queste narrava del tragico amore tra il giovane Krocus e la ninfa Smilace, osteggiato dagli dei per il voto di castità della ninfa. Per separare per sempre i due amanti, gli Dei trasformarono la ninfa nella pianta di bosso e Krocus nel fiore di croco, dagli stimmi profondamente rossi.

Un’altra leggenda, questa volta romana, narra del dolore del dio Mercurio, che dopo aver ucciso inavvertitamente l’amico Croco, durante i suoi esercizi di lancio del disco, lo trasformò nel bellissimo fiore, macchiato di rosso a ricordo del sangue versato.
Intanto lo zafferano prosperava in medicina per le proprietà afrodisiache e antibatteriche che gli erano state assegnate e diventava, dall’Antica Roma a tutto il Medioevo e Rinascimento una sorta di status symbol. Chi poteva permettersi, tra tutte le spezie, anche questa preziosa polvere dorata erano solo le classi molto agiate.
Archestrato, cuoco e poeta greco, sosteneva che lo zafferano in un piatto lo rendeva “degno delle divinità immortali”, mentre i Romani erano soliti utilizzare la polvere dorata per preparare vini speziati e per nobilitare ulteriormente le già pregiate carni del pavone, con una salsa a base di zafferano, miele e nocciole.
Nel 1450 è ingrediente di ben 70 ricette di Mastro Martino di Como, il celebre cuoco della
famiglia Sforza, mentre a Venezia, nel momento più fiorente della Serenissima Repubblica, fu necessario istituire un ufficio dedicato esclusivamente ai commerci che riguardavano la preziosa spezia.

Dal Mediterraneo si spostò anche in Francia, dove diede vita alle preziose coltivazioni provenzali, e in Inghilterra e in Nord Europa, dove la memoria si conserva nei dorati dolci delle feste, ad esempio i Lussekatter svedesi, i panini di Santa Lucia.
Il pane dolce della Cornovaglia è uno di questi. Un pane ricco, da giorni di festa, arricchito da spezie e frutta secca e colorato dal giallo dello zafferano che in Cornovaglia rappresentava un’importante coltura nel XVI secolo.

Alcune note sulla farina che ho utilizzato per questo dolce: si tratta di Cerealia Wellness.
Come si nota nel loro marchio coi tre mulini, Cerealia nasce nel 2013 dall’unione di tre impianti molitori tra Lombardia e Piemonte, Molino Fiocchi, Molino Saini e Molino Seragni, nati tra la fine dell’800 e gli anni ’30 del XX secolo. L’unione fa la forza e il fatto di avere tre impianti che lavorano in sinergia ha permesso a Cerealia di diversificare la produzione a seconda delle necessità ed esigenze e di prestare più cura al cliente e al prodotto finale che si vuole ottenere. Unire le forze in questo caso ha permesso di svolgere analisi sempre più approfondite, per garantire una qualità ineccepibile ed investire nella ricerca per prodotti all’avanguardia.
Così oltre alle farine ad uso professionale, apprezzate da molte aziende, nasce la farina Wellness. Cerealia Wellness si presenta ad occhio nudo come una farina bianca;  in realtà essa è ricchissima di fibre, ma non contiene la parte più esterna del chicco, la vera e propria buccia che, avendo altissimi contenuti di lignina risulta più difficile da masticare ed è, a volte, irritante per l’intestino. Il contenuto di fibra, però, tolto il tegumento del chicco, è ugualmente molto alta, permettendo così un ridotto apporto di calorie e un sapore più pieno e gradevole.
Se avete ancora dei dubbi riguardo alla qualità di questa farina, pensate che la buccia esterna del chicco è quella che raccoglie tutti gli agenti atmosferici e le microtossine e quindi eliminarla rappresenta una garanzia per la salute, mentre il costo della Wellness, grazie alle tecniche approntate da Cerealia, resta comparabile con quello di farine tradizionali.
Qui i valori nutrizionali del prodotto:

[fonti sulla storia dello zafferano:
http://www.lifegate.it/persone/stile-di-vita/l_antica_magia_dello_zafferano_di_provenza_e_ritornata_realta
http://www.lespezie.net/abc/391-zafferano.html
http://www.zafferano-leprotto.it/Lo-zafferano/curiosita.html]

La ricetta: Pane dolce della Cornovaglia allo zafferano
(ricetta rivisitata dal libro “Il Pane fatto in Casa”)

(per uno stampo da plumcake 20x10cm):

130 ml di latte
10 g di lievito di birra fresco
2 bustine di zafferano in polvere
200 g di farina Cerealia Wellness
30 g di mandorle tritate
la punta di un cucchiaino di noce moscata in polvere
1/2 cucchiaino di cannella in polvere
30 g di zucchero di canna
36 g di burro
25 g di uva passa (queste le mie dosi, ma aumentate a piacere)
25 g di mirtilli rossi essiccati (queste le mie dosi, ma aumentate a piacere)
1 pizzico di sale
1 tazzina di rum
2 cucchiai di latte
2 cucchiai di zucchero
mandorle in lamelle
Lasciare ammorbidire il burro fuori dal frigo.
Sciacquare l’uvetta e i mirtilli e metterli a bagno in una tazzina di rum.
Scaldare metà del latte portandolo quasi ad ebollizione, poi fare un’infusione con lo zafferano. Lasciare riposare per 15 minuti.
Intiepidire il latte restante a temperatura ambiente e sciogliervi il lievito e 30 g di farina, lasciando coperto fino a che non inizia a fermentare.
Mescolare la farina restante con le mandorle tritate, le spezie, lo zucchero. Aggiungere il lievitino, cominciare ad impastare, poi aggiungere lo zafferano e infine il burro morbido e il sale, impastando il tutto per 10 minuti, fino a che non diventa omogeneo e liscio, distribuendo in modo uniforme l’uva passa, scolata e asciugata in carta assorbente. Coprire con pellicola leggermente unta e riporre al tiepido fino a raddoppio avvenuto.
Sgonfiare l’impasto e dividerlo in tre pezzi. Ricavare una pagnottina tonda da ogni pezzo e mettere tutte e tre in uno stampo da plumcake appena unto. Coprire nuovamente con pellicola unta e lasciar raggiungere il bordo dello stampo.
Riscaldare il forno a 190°.
Nel frattempo preparare la glassa con latte e zucchero. Spennellare il pane dolce ed infornare per 10 minuti. Poi abbassare a 180° e far proseguire la cottura per un altro quarto d’ora.  Verificare la cottura del fondo del pane, estraendolo dallo stampo, ed eventualmente completandola in forno. Poi spennellare ancora il dolce di glassa e cospargerlo in superficie di scagliette di mandorla.

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Torta al miele e mandorle e l’inizio della “storia del miele”

Parliamo di miele. E non è mica cosa semplice… L’inchiostro in materia è davvero un mare, perchè il miele ha una storia lunga quanto il mondo.

Per chi sa che viene prodotto dalle api ma non ricorda bene il procedimento (come la sottoscritta, fino a ieri!) ecco cosa accade: le api esploratrici succhiano il nettare dal fiore e quando si sono ben riempite il pancino (in realtà la sacca mellifera è posta prima dello stomaco) tornano all’alveare e lo passano ad altre api. Per ogni bottino di miele il passaggio viene fatto altre 100 volte, di stomachino in stomachino, arricchendosi di enzimi preziosi che trasformano il nettare in miele. A questo punto il miele liquido, contentente oltre il 70% di acqua, e deposto nella celletta, viene asciugato dalle api con il movimento delle ali, come una sorta di phon naturale, che consente di arrivare al 18% di presenza di acqua. A questo punto il miele, che grazie al suo contenuto zuccherino si può conservare per anni, viene sigillato dentro la celletta con la cera.
Le api da cui proviene il miele italiano sono in massima parte della specie mellifica ligustica che, oltre ad avere un buon carattere, produce anche un’elevata quantità di miele in eccesso, rispetto al fabbisogno di sostentamento dell’alveare. Per questa ragione il miele in più può essere prelavato dall’apicoltore e trasformato.

Tralasciando la parte puramente biologica, e correndo per un milione di anni indietro nel tempo, il miele, ben prima di tornare “di moda” per le sue tante proprietà salutistiche era l’unico ingrediente in grado di dolcificare i cibi, ben prima della scoperta dello zucchero, almeno in questa parte del mondo. 
Giusto per dare qualche parametro sullo zucchero: esso era già conosciuto in Polinesia dal XIII secolo a.C., e dal VI secolo a.C, diffuso anche nella Persia di Re Dario. La diffusione, invece, la si deve agli arabi, sempre grandi commercianti dall’Oriente all’Occidente, che lo conoscevano già dal VI secolo a.C. e incominciarono a farlo viaggiare, insieme alla canna da zucchero, dal VII secolo d.C con la loro grande espansione verso l’Europa.
Ma torniamo al miele. La sua fortuna è ben più antica. 
Le api sociali avrebbero
un’età che va dai 20 ai 10 milioni di anni
, e permettetemi di
sorridere su questa approssimazione di soli 10 milioni di anni. L’uomo
è comparso solo 1 milione di anni fa e da subito cominciò ad
approfittare di questa dolcezza di natura: questa è una pittura rupestre trovata nella zona di Valencia, in Spagna, che rappresenta un raccoglitore di miele, con accanto il favo e le api in volo che sembra raccontare nei dettagli una tecnica di raccolta utilizzata ancora oggi in India.
La parola miele, melit, viene trovata per la prima volta su una tavoletta ittita; nel codice di Hammurabi erano previste pene severe per chi svuotava illecitamente un’arnia; e sulle iscrizioni geroglifiche egizie la letteratura in materia diventa una mole interessante, con prove “dipinte” del fatto che era già diffusa l’apicoltura. E quando Ra, il dio Sole, piangeva d’amore, queste erano lacrime di miele.
Per i Greci il miele era il cibo degli Dei, l’Ambrosia, ma soprattutto il nutrimento che permise la sopravvivenza del primo e più importante dei loro dèi, Zeus, quando era minacciato dal padre Kronos, tristemente conosciuto per l’abitudine a cibarsi della propria prole. Le leggende in merito sono tante, un vero e proprio intreccio di storie, dove ninfe, figlie di re e animali mitologici intrecciano le loro vincende; alla fine il succo è questo: la capra Amalthea, o una ninfa con questo nome e la ninfa Melissa, poi trasformata in ape, nutrirono il piccolo Zeus con latte e miele.
E una torta con yogurt greco, panna, miele e mandorle è il migliore accompagnamento a questo groviglio di storie.
La ricetta: Torta al miele e mandorle (da una ricetta “Duchy Originals”, rivisitata da me)
175 g di farina di grano tenero
200 g di mandorle tritate finemente
100 g di miele (per me MielBio Rigoni d’Asiago -Tiglio)
100 g di zucchero di canna
150 g di yogurt greco
50 g di panna fresca
1 uovo
2 cucchiaini di lievito per torte 
1 manciata di mandorle a lamelle
Imburrare e infarinare la teglia (21-22 cm di diametro).
Accendere il forno a 160°.
Mescolare con una frusta zucchero, yogurt, panna, miele e tuorlo del’uovo.
Montare a neve l’albume.
Aggiungere poi al composto la farina, con il lievito in polvere e le mandorle tritate, mescolando bene.
In ultimo incorporare con cura l’albume montato a neve.
Trasferire nella teglia ed infornare per circa 40 minuti. (con prova stecchino e senza far scurire troppo la superficie).
Spennellare la superficie della torta con 1 cucchiaio di miele allungato con acqua e distribuire le lamelle di mandorla.

Io l’ho accompagnata con yogurt greco al naturale e mirtilli…ma era ancora settembre…naturalmente si presta a qualsiasi frutto di stagione

[fonti: 
http://www.mieliditalia.it/index.php/mieli-e-prodotti-delle-api/miele/80136-il-miele-attraverso-i-secoli
http://www.placidasignora.com/2012/11/18/le-lacrime-di-ra-storie-proverbi-e-curiosita-sul-miele/
http://bifrost.it/ELLENI/2.Teogonia/06-Nascita_di_Zeus.html]

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Il wurstel agricolo GusterLuiset con miele e senape e un contorno agrodolce

Vi siete mai chiesti cosa c’è dentro un wurstel? La letteratura in materia racconta di tutto…anche l’inenarrabile.
Per raccontare il proprio wurstel, l’Agrisalumeria Luiset ha invece scoperto tutte le carte in tavola, facendoci vedere gli ingredienti e la preparazione durante l’istruttiva giornata di visita alla loro azienda.
Eccoli, gli ingredienti del Guster Luiset, un wurstel di puro suino, che abbiamo visto confezionare passo dopo passo:

Unico conservante il salnitro, obbligatorio per legge nelle carni conservate e nella proporzione che vedete.

Da qui è stata illustrata la preparazione: le carni utilizzate sono le
rifilature del prosciutto
, quello che per essere cotto deve entrare in
uno stampo rettangolare come questo a destra.
Le parti in eccedenza, che non entrano nella forma, vengono quindi tagliate via e raccolte per diventare Guster.
La carne, condita con tutti gli ingredienti sopracitati, viene tritata assieme a del ghiaccio, per evitare il surriscaldamento, per tre volte, attraverso una trafila da 3 millimetri. Poi è insaccata in budello di montone, assolutamente naturale, ammorbidito in acqua calda.
Infine mani pazienti arrotolano i wurstel per appenderli e cuocerli. Anche la cottura è lenta: dura circa 90 minuti a bassa temperatura dai 50 ai 70 °C, poi il Guster viene anche affumicato con fumo liquido, il procedimento più sano per affumicare.

Gino Casetta, il fondatore di Luiset, ci spiega che più la grana di un salume è fine più è facile farci entrare di tutto. Per questo avere una così grande attenzione per il wurstel, tra l’altro uno dei salumi più amati dai bambini, è una garanzia di attenzione per tutti i suoi salumi.
Sentir parlare il signor Gino del suo mestiere è affascinante: la gavetta in salumeria per appendere tutte le tecniche di trasformazione della carne – da giovane lui andava di cascina in cascina per la macellazione del maiale – e il suo percorso fatto di esperienza e pazienza per le cose “lente”. 
La carne più adatta per la preparazione dei salumi è quella del maiale maturo, di almeno un anno di età e che ha raggiunto i 200-230 chili. Questi sono frutto di un accrescimento lento, e il risultato sono carne e grasso sodi. I maiali vengono allevati nei campi adiacenti l’azienda, nella cascina di famiglia a San Secondo di Ferrere (AT) e alla Cascina Milandra di Oviglio (AL).
Tutto il resto lo fa la perizia nelle preparazioni, nel modo di dosare le spezie e il vino. Luiset vanta una collezione di 35 prodotti diversi, per incuriosire e ingolosire ogni palato.
Una ricca gamma di questi salumi l’abbiamo provata durante il pranzo. Guardate che meraviglia:
E naturalmente abbiamo potuto assaggiare il Guster declinato in diverse ricette dello chef Bruno Cingolani del ristorante Dulcis Vitis di Alba, accompagnate dai vini dell’Azienda Agricola Pescaja.

Non potevo non contribuire con una ricetta che spesso utilizzo per le salsicce. Si è rivelato azzeccatissimo anche il contorno, con la giusta punta di agrodolce.

La ricetta: Wurstel Agricolo al forno con senape e miele con contorno di carote e sedano rapa in agrodolce

(per due persone)
3 wurstel agricoli (per me #Guster Agrisalumeria Luiset)
40 g di cipolla
1 rametto di maggiorana
1 rametto di timo
30 g di miele di tiglio
30 g di senape granulosa
1 cucchiaio di senape cremosa
1 goccino d’acqua 
100 g carota
80 g sedano rapa pesato già pulito
1 cucchiaino di zucchero di canna
1 cucchiaio di aceto
olio extravergine d’oliva
sale
pepe

Preparare le verdure, lavando e sbucciando la carota e tagliandola a nastri con il pelapatate, e pulendo il sedano rapa e tagliandolo a julienne.
Affettare la cipolla e metterla in padella con due cucchiai d’olio. Lasciarla rosolare per qualche istante senza farla scurire, poi scolarla e metterla da parte. Nell’olio aggiungere il sedano rapa, lasciarlo insaporire per un paio di minuti e poi sfumare con un goccino d’acqua. Quando l’acqua è evaporata aggiungere in padella anche le carote e ripetere il procedimento. Lasciar cuocere per 7-8 minuti. Poi regolare di sale e pepe, aggiungere lo zucchero di canna, mescolando, e sfumare con un cucchiaio d’aceto. Quando le verdure saranno di nuovo asciutte spegnere il fuoco.
Preparare l’emulsione mescolando in una ciotola le cipolle messe da parte in precedenza, il miele, la senape granulosa e quella cremosa, le erbette aromatiche diraspate.Allungare con un cucchiaino d’acqua e mettere in questo composto i wurstel tagliati a pezzi grossi. Amalgamare bene e poi trasferire il tutto in una pirofila da forno: deve essere abbastanza piccola, in modo che il tutto resti vicino e non si asciughi troppo. Infornare a 190° per 5 minuti.
Scaldare per qualche istante le verdure prima di servire assieme.
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Il peperone nel raviolo e la 65° Sagra del Peperone di Carmagnola

Oggi vi parlo di peperoni e della Sagra del Peperone che si svolge a due passi da Torino, a Carmagnola dal 29 agosto al 7 settembre e che è giunta ormai alla 65° edizione.

Il 30 agosto, grazie all’invito del Comune di Carmagnola, sono stata lì, tutta la giornata, con Turismo Torino, per conoscere un po’ di più la città, alcuni dei suoi produttori e la sua Sagra, una vera e propria istituzione per il territorio. Nel frattempo avevo già fatto il pieno di peperoni, meraviglioso frutto estivo, che insieme alla melanzana mi fa proprio impazzire e la settimana passata ho condiviso sulla mia pagina Facebook le vecchie ricette a base di peperoni.
Un capitolo tutto suo lo merita il Povron ëd Carmagnòla, il peperone di Carmagnola, prodotto in moltissimi comuni della provincia di Torino e in alcuni della Provincia di Cuneo.
Le varietà sono 4 e i loro suggestivi nomi in piemontese sono: il Bragheis, quadrato, il Long, ovvero il famoso Corno di Bue, presidio Slow Food, il Trottola, conosciuto anche come peperone Cuneo ed infine il Tomaticòt.

peperone quadrato di Carmagnola
Il peperone è giunto a Carmagnola nei primi anni del ‘900, e quindi in epoca relativamente recente, introdotto un orticoltore di Borgo Salsasio, ma qui ha trovato un microclima ideale. Era una pianta piuttosto giovane per l’Europa, avendo preso piede come ortaggio commestibile soltanto nell’800. In precedenza, dopo la scoperta dell’America era sì, conosciuto – Leonardo da Vinci, ad esempio estraeva dal peperone alcuni pigmenti per i suoi dipinti – ma apprezzato soltanto come pianta ornamentale. Questo non stupisce se si pensa ai suoi grandi frutti, colorati e gonfi come palloni.

Il tour di sabato, però, non era dedicato soltanto al peperone ma anche al territorio carmagnolese, ricco di spunti di ogni genere, e la Sagra può fungere da pretesto per una visita più approfondita alla scoperta dei suoi tesori. 
Parliamo intanto dell’Abbazia di Casanova, antica abbazia cistercense risalente nel suo impianto originario al XII secolo, situata lungo una delle vie francigene, che conobbe uno sviluppo ininterrotto fino al XVI secolo quando venne ceduta ai Savoia. Distrutta quasi completamente da un rovinoso incendio, la facciata attuale è in stile tardo barocco piemontese, mentre il resto del monastero e l’interno della chiesa si devono all’intervento di Giovanni Tommaso Prunotto, allievo di Juvarra, nella metà del secolo XVIII. All’interno perfettamente conservati stucchi di pregio e alcuni arredi, e gli affreschi del Guidobono e di Crivelli, mentre è da segnalare una Madonna con bambino del ‘400.

Menzione d’onore all’Ecomuseo della Canapa, in Borgo San Bernardo, per me un vero tesoro. L’Ecomuseo preserva la memoria storica di un territorio in cui le aziende a conduzione familiare che si dedicavano alla produzione di corde erano più di 800 nel XIX secolo. La signora Caterina, con chiarezza e passione, ci ha accompagnato nella scoperta della pianta della canapa, mostrandoci come veniva ricavata la fibra e come venivano poi prodotte le corde. La pianta di canapa veniva lasciata macerare e poi la fibra veniva separata dalla parte più legnosa. La fibra veniva “filata” con l’aiuto di un macchinario, anche se gran parte del lavoro era svolto a livello manuale, e con qualsiasi condizione atomosferica, spesso all’aperto, vista la necessità di un’area di lavoro “lunga”.

I fili ottenuti venivano poi intrecciati grazie all’utilizzo di una sorta di argano e a una spoletta. La spoletta, a seconda della corda che si voleva ottenere variava di dimensione e di scanalature.
La corda veniva poi bagnata e ripassata con una maglia di ferro che la rendeva liscia.

Il territorio carmagnolese ha rifornito di cordami la marina italiana per secoli, ma esisteva un tipo di corda per ogni uso e le lavorazioni erano molte.

Il giro nel centro storico mi ha piacevolmente stupito, gli scorci da scoprire sono davvero tanti. Ma l’orgoglio dei Carmagnolesi, assieme alla chiesa Collegiata dei Santi Pietro e Paolo, è l’interno di Casa Cavassa, con i soffitti a cassettoni tra i più belli della provincia torinese.
Peccato non aver potuto visitare la Sinagoga barocca, tra le più belle d’Italia, segno della presenza a Carmagnola di una fiorente comunità che sfiorava, prima dell’emancipazione del 1848, circa le 200 unità.

Non si poteva organizzare un tour a Carmagnola senza dare un esempio dei produttori gastronomici di eccellenza che con passione danno lustro alla città.
I produttori di peperoni, ovviamente; uno fra tutti La Ca Veja, azienda agricola e agriturismo dove abbiamo anche pranzato a base di peperone di Carmagnola, passando per il porro dolce lungo e per il coniglio grigio, tutte eccellenze del territorio.



Una nota va all’entusiasmo contagioso della signora Chiara di C’era una volta una ricetta, che produce nel suo laboratorio artigianale deliziose conserve a base di prodotti dell’orto, con un occhio alla tradizione e l’altro alla sperimentazione. Recentemente è stata aggiunta anche una linea di pasticceria secca. I colori e i profumi delle sue conserve mi hanno letteralmente conquistata e meritano sicuramente una seconda visita.

Nel centro di Carmagnola si trova, invece, la Pasticceria Di Claudio, dove sono nati il peperone candito e la torta al peperone, oggi presenti in fiera. Anche in questo caso è il sorriso contagioso del titolare a conquistarci, assieme agli infiniti assaggi di tutti i prodotti e alle sue esaurienti spiegazioni: ci dice “diffidate di coloro che dopo tanti anni di lavoro in pasticceria si dicono nauseati dalla dolcezza; vuol dire che non stanno più lavorando con passione“. Anche per noi blogger è così! 😉

Ultimo ma non ultimo, il Carmagnolotto, l’agnolotto tipico di Carmagnola. Presentatomi in anteprima da carmagnolesi DOC, doveva contenere la carne delle vacche anziane e non più produttive, le giore, insieme al porro lungo dolce di Carmagnola, e doveva essere servito nello stesso brodo di carne di vacca o direttamente, nudo, sul tovagliolo. A La Ca’ Veja abbiamo trovato una versione di magro, con la sfoglia di farina di canapa e il ripieno di ricotta di bufala e peperone.
Allora, qual è il vero Carmagnolotto?
Visto che, come al solito, non mi fermo alla prima notizia, ho voluto approfondire: quello di magro è il Carmagnolotto edission limità” nato proprio per venire incontro ai vegetariani e per essere meglio apprezzato durante i giorni ancora caldi della Sagra, mentre dall’autunno potrete gustare nuovamente quello classico di carne.

Sfoglia di canapa a parte, assomiglia al mio raviolo ai peperoni, sperimentato un paio di settimane fa e riproposto in due cene diverse, visto il suo successo.
Un gusto decisamente esplosivo, visto che i peperoni all’interno del ripieno li ho messi a pezzettini, ben rosolati in aglio e acciughe, dopo esser stati passati in forno per eliminare ogni traccia di buccia e renderli digeribilissimi.
Io li ho conditi con un sughetto leggero di pomodorini freschi. Ne rifarò altri, per congelarli, nelle prossime settimane, per gustarli anche in inverno!

La ricetta: Ravioli ai peperoni, con sughetto di pomodorini e cubetti di Macagn

per la sfoglia:
200 g di semola rimacinata di grano duro
125 g di acqua tiepida
1 pizzico di sale

per il ripieno:
200 g di ricotta vaccina asciutta
2 peperoni grandi
2/3 filetti di acciuga
1 grosso spicchio d’aglio
qualche foglia di prezzemolo
olio
sale

Per il ripieno:
Arrostire i peperoni in forno a 200° per 35-40 minuti. Estrarli dal forno e riporli in un sacchetto di plastica per alimenti e chiuderlo bene fino a completo raffreddamento. Poi liberare i peperoni da semi e bucce e tagliarli a quadrettini di un cm di lato.
In una padella, rosolare in due cucchiai d’olio lo spicchio d’aglio appena schiacciato. Abbassare la fiamma e sciogliere i filetti di acciuga, poi aggiungere i peperoni e farli insaporire per qualche minuto, regolando di sale. Aggiungere anche alcune foglie di prezzemolo tagliuzzate fini.

Per la sfoglia, impastare farina e acqua con il pizzico di sale fino ad ottenere una pasta liscia e morbida. Lasciarla riposare sulla spianatoia infarinata, coperta da una ciotola, per circa mezz’ora.

Stendere la sfoglia molto sottile, e formare i ravioli della forma che preferite, con all’interno un cucchiaino di ripieno: questa volta ho usato questo forma-ravioli, badando di inumidire i bordi prima di chiudere il raviolo.

Lessare i ravioli in abbondante acqua salata prima di condirli con il sugo che preferite.
Io ho fatto un sughetto veloce con uno spicchio d’aglio e pomodorini maturi, insaporito da un rametto di maggiorana e arricchito da cubetti di Macagn*.

*il Macagn (o Maccagno) è un formaggio piemontese d’alpeggio, DOP e Presidio Slow Food

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Da Gertosio un aperitivo speciale con i vini di 84.81Wine

A Torino ci sono posti speciali e ricchi di storia e per chi mi conosce sa che tuffarmi in un’atmosfera d’altri tempi è per me un invito a nozze.
L’amore per la pasticceria della famiglia Gertosio nasce nel lontano 1840, quando il signor Fedele Gertosio fonda la Panetteria e Pasticceria Buschese a Busca (CN). Nel 1880 ad opera di suo figlio Quinto la pasticceria si sposta nel capoluogo, a Cuneo, prima in via Nizza, e nel 1936 in via Barbaroux.
Durante la guerra il forno fu confiscato dai tedeschi ma i Gertosio trovarono il modo per rifornire anche i partigiani grazie a segretissime consegne notturne in bicicletta.
Dopo la guerra l’attività si spostò a Roma. I Gertosio vennero subito conosciuti per la spettacolare bontà dei loro dolci e per l’intraprendenza della madre Paola che con una cesta di vimini piena di maritozzi e croissant entrava per la prima volta al Bar Nord, vendendo tutta la scorta della mattinata in un colpo solo. Ben presto la mole degli affari crebbe, il laboratorio era in via Tiburtina e da lì ogni mattina partivano 5 giardinette furgonate per consegnare in tutta Roma.
Il destino fa sì che l’attività si sposti nuovamente a Torino nel 1965, e Gianni comprende che il futuro sta nella lavorazione del cioccolato.
Accanto a paste e torte di ogni genere, buona parte dell’impegno viene dedicata al cioccolato, indagando attraverso l’assaggio i gusti della clientela. Il lavoro dedicato al cioccolato permette a Gianni di essere premiato ad Annecy con un cioccolatino francese, il napolitaine. Nel mentre la moglie Giusy, con un occhio alle confezioni bellissime per le quali la pasticceria era nota, diventa la presidente delle donne pasticcere di Torino ed organizza viaggi di studio per le quote rosa della pasticceria in tutto il mondo.
Dal 1987 a tenere le redini della Pasticceria Gertosio è Massimo, che dal mattino alla sera è in negozio, ma che parla sempre di passione per ciò che fa. Inizia nel laboratorio di via Balme ed ora dal 1999 è nell’antico negozio di via Lagrange. Qui i panettoni si comincia a produrli ad ottobre e non si smette fino all’arrivo dei primi caldi, un po’ per mantenere sempre attivo il lievito madre e un po’ perchè la cientela che li conosce ama gustarli tutto l’anno, soprattutto quello con l’albicocca candita, candita da loro, naturalmente.

Nel bel locale, dichiarato da qualche anno locale storico, fanno bella mostra le targhe dei Maestri del Gusto insieme ad antiche scatole di latta di cioccolatini e biscotti e ai prodotti più speciali che qui si sfornano e si vendono.
In primo luogo la Torta Sabauda, nata negli anni ’90 dalla creatività di Gianni, ma consultando i vecchi appunti di ricette del nonno Quinto ed immaginando i gusti sofisticati della corte sabauda. Si tratta di un piccolo capolavoro confezionato con un cuore di farina di nocciole e cacao ricoperta di cioccolato gianduia che, come un prezioso guscio, ne mantiene la freschezza; 500 piccole torte sono recentemente partite per Osaka dove hanno trovato un nuovo proficuo mercato.

Accanto a lei il Sabaudo, un caffè ricoperto di panna con granella di nocciole e crema di nocciole.
A questo proposito la Crema di Nocciole Gertosio è con il 31% di nocciole Piemonte e polvere di cacao profumatissima; poi 36 ore di concaggio per un prodotto davvero ricercato.

Tra le specialità le Palle di Pietro Micca che, al largo da facili allusioni, fanno riferimento alle granate esplose dall’eroe piemontese nei cunicoli della cittadella durante l’assedio francese del 1706. Sono due meringhe alle nocciole tenute insieme da cioccolato gianduia. Anche la Torta dell’Assedio ha la stessa composizione; si narra, infatti, che nonostante la mancanza di generi di prima necessità, fosse comunque facile trovare albume e zucchero, con questi i pasticceri sabaudi confezionarono un dolce simile all’attuale specialità di Gertosio.

E se proprio non amate i dolci non ci sono scuse per portarvi un bel souvenir da Torino, c’è anche la Pasta al Cacao da condire con burro o cacao amaro e panna, come consigliato da Massimo.
Io la vedrei bene con un ragù bianco di coniglio.

Gertosio, fino al 3 agosto, anima l’estate torinese come cornice di alcuni aperitivi tematici. Ogni venerdì le sue specialità salate sono abbinate ai vini scelti dai personal winers di 84.81 Wine* oppure ad alcune birre artigianali.

La scorsa settimana toccava allo champagne Louis Brochet, un modo fresco ed informale di bere champagne. Questo venerdì sarà la volta delle birre artigianali Antagonisti.
Accanto ai vini o alle birre un aperitivo vecchio stile, con stuzzichini salati. Assolutamente da provare i cioccolatini che troverete nel piatto, sotto un guscio di cioccolato fondente troverete un bocconcino di Parmigiano Reggiano abbastanza giovane e tenero: un contrasto delizioso di sapori e consistenze, e se Massimo dice che così ha conquistato sua moglie, c’è da crederci!

*84.81Wine porta i personal winer a casa tua; conosciuto il menù che vuoi portare a tavola, Angelo Pusceddu e Christian Termini ti consigliano i vini più adatti per gli abbinamenti e ti sanno indirizzare nei doni e negli acquisti più particolari in ambito enologico.

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Vaie e il suo Delizioso Canestrello

Ormai sono passate due settimane, ma mi preme raccontare della mia esperienza alla Sagra del Canestrello, perchè si tratta di parlare di un prodotto tipico legato al territorio.
Ci troviamo in Valsusa, precisamente a Vaie, e il canestrello ricorda per la forma reticolata e per la sua preparazione in piastre di ghisa quadrettate altre preparazioni delle vallate limitrofe: i gofri della Val Chisone, i canestrelli a cialda canavesi e biellesi, le tegole valdostane e via discorrendo…
L’origine è comune, questi dolci venivano cotti sulle piastre usate anche per confezionare le ostie da consacrare, nei conventi, dove, da Nord a Sud, era comune la preparazione di dolci in occasione delle festività religiose.
Il canestrello di Vaie è legato al suo patrono, S.Pancrazio, ma l’impasto differisce da altri che sono semiliquidi.
Si tratta infatti di una “pastafrolla sbagliata” come ci ha spiegato il mastro pasticcere Luca Gioberto, poichè il burro viene fuso, prima di essere mescolato a farina, zucchero ed uova. Completano un pizzico di lievito e la buccia grattugiata di limone, molto abbondante, che rappresenta l’unico aroma e il gusto predominante dopo il burro. L’impasto risulta morbido e facilmente lavorabile. Viene diviso in tante palline grosse come albicocche che vengono poi pressate nella piastra di ghisa che conferisce loro il disegno caratteristico e il nome che deriva dal dialetto canesterlè, che significa formare un reticolo.
La caratteristica
piastra di ghisa è tutt’altro che maneggevole, un tempo veniva rigirata
direttamente sul fuoco e sulla stufa sfruttandone un’estremità come
perno; sui fornelletti è tutt’altra cosa e ci siamo fatte aiutare da
Luca Gioberto, ma il risultato finale è stato anche un po’ merito
nostro.

<<Il canestrello ha una ricetta che non si può sbagliare, perchè è già sbagliata>> ci ha ripetuto Luca Gioberto, minimizzando la nostra soddisfazione; si tratta piuttosto di rigore, velocità e disciplina, perchè i canestrelli siano tutto della stessa dimensione e con lo stesso grado di cottura. Lui si regola senza orologio, preparando le palline di impasto; quando ne ha fatte un certo numero sa che la cottura delle altre è giunta al termine. Ma le varianti sono tante, anche l’altezza della fiamma e naturalmente la qualità degli ingredienti.

Grazie al lavoro rigoroso dei produttori, il Canestrello di Vaie è entrato nel Paniere dei Prodotti Tipici della Provincia di Torino, tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionale della Regione Piemonte, ed è marchiato anche Dolce Val Susa e Prodotti della Valle di Susa, mentre alcuni produttori si fregiano del riconoscimento Eccellenza Artigiana Piemontese.
Vaie non è solo canestrello. Proprio grazie alla purezza delle sue acque il birrificio SorA’laMA’, di origine langarola ha deciso di insediarsi qui. Qui si producono una grande varietà di birre crude, non pastorizzate, dai profumi ed aromi con un forte carattere personale. 
In occasione della Sagra del Canestrello proprietario del birrificio ci ha spiegato con grande passione e competenza il procedimento di trasformazione dell’acqua in birra e poi abbiamo potuto mangiare tutti insieme, nel ristorante attiguo, deliziosi piatti in abbinamento alle diverse birre della gamma, premiate da Slowfood.
Le birre Sor’Ala’MA le potete assaggiare nei punti M**Bun ed acquistare anche sull’e-shop Sor’AlaMA’.
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Cascina Fontanacervo: la visita al caseificio

Cascina Fontanacervo è un posto speciale vicino a Villastellone. La famiglia Crivello ci vive e ci lavora dal XVII secolo ed io trovo affascinante immaginare questi campi, che sono ora coltivati a foraggio per il bestiame, ancora attraversati dai cervi e dalla selvaggina. 
Il nucleo originario della cascina è quello del ‘600 e molte delle attività vengono svolte con la stessa naturalità e semplicità di un tempo, anche se ora ci sono i macchinari ad alleggerire il lavoro.
Dal semplice allevamento di mucche da latte, la famiglia Crivello è passata alla trasformazione in yogurt negli anni ’90 e successivamente alla produzione di formaggi.
Oggi sono Maestri del Gusto, ciò significa che hanno ottenuto un riconoscimento dalla Camera di Commercio di Torino per aver svolto il loro lavoro in modo sano e genuino.
La filiera produttiva è interamente svolta in cascina e nei campi limitrofi, con un’evidente minimizzazione dei trasporti e dell’inquinamento ambientale.
Proprio davanti alla cascina vengono coltivati erba e granoturco destinati al bestiame, senza l’uso di concime chimico, ma con il solo utilizzo del liquame animale. 
A pochi passi dai campi, le mucche, di razza Frisona e di razza Jersey, vengono foraggiate con alimenti completamente naturali e la media produttiva è tenuta volutamente bassa per dare una migliore qualità della vita all’animale: ogni mucca produce mediamente 20 litri di latte al giorno, contro i 35 degli allevamenti intensivi.
Il latte subito dopo la mungitura viene trasportato senza venire a contatto con l’aria esterna fino ai locali per la lavorazione. Questa è affidata al Mastro Casaro e ad altri specialisti che trasformano il latte in yogurt e formaggi senza utilizzare ingredienti chimici, né addensanti e coloranti, ma solo latte, caglio e sale. 
Anche gli imballaggi sono ridotti al minimo, e si privilegiano quelli riciclabili, come il cartone e il vetro.
I prodotti sono davvero tanti; il latte e la panna, innanzitutto, seguita dal burro, dalle creme-dessert, dagli yogurt, in tanti gusti diversi e nella variante probiotica; poi vengono i formaggi freschi, i tomini e i tomini a rotolo (quelli da fare elettrici o al verde), la freschissima, la crema contadina (che è come lo stracchino), poi il primo sale, la mozzarella, le robiole e poi la ricotta; infine ci sono dei formaggi a media stagionatura: la Turineisa (30 giorni), la Granda (60 giorni), la Sabauda (90 giorni) e poi le mie preferite, le tenere Paglierine con stagionatura di 20 giorni, che un tempo venivano poste a maturare sulla paglia e mentre all’esterno si formava una crosta bianca, su cui restava impresso il reticolo di paglia sul quale erano appoggiate, l’interno si trasformava rapidamente in una crema morbida e delicata.
Infine un tocco di golosità: Fontanacervo produce anche del gelato delizioso…io l’ho assaggiato ed è ricco e cremoso. A proposito di gelato voglio parlarvi di un appuntamento che i golosi e i curiosi non possono farsi scappare: sabato 25 maggio, dalle 11 alle 18, ci sarà l’Open Day di Fontanacervo, durante il quale sarà possibile visitare la cascina e il caseificio, vedere le mucche e i vitellini e capire come vengono prodotti i loro formaggi. Inoltre sarà possibile assaggiare il gelato Fontanacervo ed il ricavato dalla vendita delle coppette sarà interamente devoluto in beneficienza alle Figlie di Maria Ausiliatrice per l’acquisto di un generatore in Congo. 
Trovate ulteriori informazioni sul loro sito e sulla pagina Facebook dell’evento. Occorre registrarsi!!
Spero di avervi suscitato un po’ di curiosità e vi lascio con una ricetta fatta apposta per la deliziosa Paglierina, un flan di asparagi delicatissimo che ben si sposa con la crema dolce del formaggio e con il croccante del pane azimo.
La ricetta: Flan di Asparagi con Paglierina Fontanacervo e Pane Azimo cotto in padella
500 g di asparagi 
1/2 cipolla piccola
erba cipollina
olio
sale
pepe bianco
2 uova
parmigiano grattugiato
Ho lavato gli asparagi e, tenendo le punte da sbollentare a parte, ho tagliato i gambi a rondelline sottili.
In una padella con 2 cucchiai d’olio ho fatto rosolare la cipolla sminuzzata e le rondelline di asparagi, stufandole con acqua finché non sono diventate morbide. Ho regolato di sale e pepe e profumato con dell’erba cipollina.
Ho frullato questo composto finemente, poi ho messo da parte qualche cucchiaio di purea di asparagi e nella restante ho aggiunto le uova e due cucchiai di parmigiano grattugiato.
Ho diviso il composto in pirottini di silicone ed ho infornato a bagnomaria a 190° finchè non sono diventati sodi. 
Nel frattempo ho preparato il pane azimo, la ricetta è questa del blog Cris e Max in cucina.Ho usato 200 g di farina, 50 ml d’acqua, un pizzico di sale e 1 cucchiaio d’olio. L’impasto deve riposare un quarto d’ora e poi può essere cotto in padella.
Ho servito i flan ben caldi deponendoli su una cucchiaiata di purea di asparagi, con sopra le puntine sbollentate in acqua salata, con un’insalatina di valeriana, gli spicchi di Paglierina e il pane azimo.
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#Made in To la visita alla Pastiglie Leone

Se vi chiedessero di tornare bambine per un giorno? Poi se questa occasione vi venisse offerta proprio il giorno della Festa della Donna, chi direbbe di no?

E così ho accolto con grandissimo entusiasmo la possibilità di visitare finalmente la Fabbrica delle Pastiglie Leone
Già dall’anno scorso era possibile partecipare ad alcuni tour guidati alla scoperta delle mitiche pastigliette e di altre aziende del teritorio torinese.
Quest’anno Turismo Torino rilancia ed offre, con Made in Torino, un carnet di scelta sempre più ampio per andare a curiosare nei marchi storici della provincia.
Non si poteva che cominciare in dolcezza ed eccoci dunque in partenza, folta schiera di donne curiose (e golose), alla volta di Collegno, dove in un unico stabilimento prendono vita dolcezze indescrivibili. 

 
Fin da subito quel che più balza agli occhi – e al cuore – è l’attaccamento all’azienda e la difesa di una storia di famiglia, in cui Daniela Monero, che ci accompagna nella visita, è la protagonista assieme al suo defilato, ma attentissimo, papà.
Così tra antiche scatole di latta, passate in chissà quali mani di golosi del secolo scorso, Daniela ci racconta la storia delle Pastiglie Leone che comincia ad Alba ad opera di Luigi Leone. Quasi subito l’azienda viene spostata a Torino perchè possa diventare fornitrice della Real Casa. Così accade, e famosa è la storia che vede un pensieroso Cavour prendere le più importanti decisioni politiche gustando la caramella gommosa Leone alla violetta.

Prima di diventare capitale d’Italia, Torino diventa capitale della pasticceria e confetteria, e conserva questo titolo ben più a lungo.
La famiglia Leone, però, dopo alcuni anni di successi, decide, nel 1934, di prendere altre strade e di vendere l’azienda. Chi subentra nella proprietà e nella gestione è Giselda Balla Monero, una delle prime imprenditrici italiane, la nonna di Daniela, detta anche La Leonessa. La Fabbrica delle Pastiglie Leone, nell’antica sede di corso Regina, raggiunge subito un più fulgido splendore e lo mantiene; il merito va a scelte oculate ma ardite, come i primi investimenti in pubblicità e in fidelizzazione della clientela.

Dalla storia alla cura di oggi c’è stato solo un salto temporale. La fabbrica è stata spostata a Collegno per far spazio al sogno del signor Monero di ricominciare la produzione del cioccolato. Il sogno si è realizzato e nella più alta espressione possibile.

Oggi, come all’inizio della storia di questa fabbrica delle meraviglie, vengono utilizzati ingredienti di primissima scelta. Solo gomma arabica e gomma adragante per le pastiglie, tanto zucchero, oli essenziali, estratti direttamente dai frutti e piante, e coloranti naturali.

Il cioccolato viene fatto con il cacao migliore, che viene lavorato a partire dalla fava, proveniente dal Centro America e da Sao Tomé; viene utilizzato solo zucchero di canna e vaniglia proveniente dal Messico. E per il cioccolato al latte si usa il latte fresco, non quello in polvere, e all’assaggio questa scelta, per certi versi faticosa perchè complica la lavorazione, si sente e si gusta!

Vestite di impermeabili di carta bianca, con cuffia e calzari, abbiamo religiosamente sfilato davanti a tutte le macchine in produzione. Daniela ci ha spiegato per filo e per segno ogni momento di ogni diversa produzione. 

Siamo state avvolte dal profumo del ribes e dell’arancia e potuto assaggiare l’impasto ancora caldo delle pastigliette e delle drops. 

Abbiamo visto fare colorate gelatine di frutta con il vero succo di frutta, abbiamo visto nuvole di amido che danno forma ai golosi fondant. 

Abbiamo assaggiato la fava di cacao e ci siamo affacciate nelle macchine per il concaggio, che rendono il cioccolato dolce e aromatico con pochissima aggiunta di burro di cacao, semplicemente cullandolo per più di 60 ore.

Abbiamo guardato con ammirazione le mani di tante donne, che lavorano alla Fabbrica delle Pastiglie Leone, che scelgono, selezionano ed incartano, intimidite dai nostri occhietti curiosi e dalle tante macchine fotografiche.

Siamo uscite con le borse cariche di acquisti, un po’ più felici, ed io ancora più orgogliosa di far da ambasciatrice all’eccellenza torinese.

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Fratelli Carli Day – una visita in azienda

Mi ritrovo finalmente a parlare della mia gita ad Imperia del 22 novembre presso l’azienda dei Fratelli Carli.
C’è stato di mezzo dicembre e il Natale, ma nonostante sia passato del tempo, ci tengo molto a mettere nero su bianco i ricordi di questa esperienza, che consiglio a tutti quanti ne abbiano la possibilità.
Fratelli Carli significa da più di cent’anni olio extravergine d’oliva e, prima dell’avvento dei negozi Carli, a Torino ne abbiamo uno, questo olio arrivava direttamente a casa tramite spedizione. 

E’ giusto fare subito una precisazione: Carli produce una tipologia di olio di sole olive taggiasche, e diverse tipologie di olio che sono blend di oli di qualità superlativa, accuratamente selezionati. 
Vista la mole di vendita non sarebbe possibile produrre solo da olive liguri, poichè esse rappresentano soltanto l’1,7% della produzione italiana; per questa ragione Carli ha cominciato a guardare non tanto alla provenienza degli oli, ma alla loro qualità. Un olio buono e senza difetti, deriva per forza da olive coltivate con tutti i più sani criteri. 
La fase della selezione degli oli, che avviene direttamente in azienda, è importantissima, perchè soltanto oli senza alcun tipo di difetto e che rispondano a determinate caratteristiche possono entrare a far parte del blend Carli.

La visita all’azienda si è articolata durante tutta una giornata su diverse fasi ben coordinate:
– visita ad un uliveto 
– degustazione guidata
– lezione di cucina con pausa pranzo
– visita al museo dell’olivo
– visita all’azienda/comparto produttivo
Le informazioni immagazzinate sono state tante ma interessantissime ed hanno contribuito a darci un quadro molto esauriente di tutto il lavoro utile per produrre un olio di ottima qualità.
Siamo partiti dalla visita ad uno degli uliveti di taggiasche, piantumato nel 2004 con circa 2000 alberi in produzione. Il periodo era perfetto per vedere le olive ancora sugli alberi e pronte per essere raccolte e per capire con quale cura vengono neutralizzate o quantomeno combattute le mosche dell’olivo e come viene effettuata la raccolta. 

Il diserbante utilizzato è idrosolubile e quindi con il lavaggio delle olive viene poi eliminato competamente. Anche lo strumento per scuotere le fronde è stato studiato per non apportare alcun danno alla pianta.

L’oliva è pronta per essere raccolta quando è ancora per metà verde, e deve essere lavorata entro 24-48 ore, pena l’ossidazione del frutto. 

Da ciò si comprende come la raccolta e la lavorazione debba seguire determinati ritmi, che sono poi quelli seguiti da migliaia di anni, anche se le tecniche di lavorazione si affinano e diventano più efficienti. Da 12 kg di olive vengono prodotti circa 2 kg di olio, quindi lo scarto di foglie e noccioli è preponderante.

Dall’uliveto siamo passati alla fase di degustazione: un’esperienza davvero curiosa per un neofita!!
Ci guida Gino De Andreis, uno dei degustatori dell’Azienda Carli, spiegandoci prima i passaggi della lavorazione del frutto, i fattori di influenza sul gusto di un buon olio extravergine di oliva e i sensi coinvolti nella degustazione.
L’oliva e quindi l’olio con essa prodotto è influenzato dal clima, dalla composizione del terreno, dalla gestione dell’uliveto, dallo stoccaggio e dalla lavorazione in frantoio e naturalmente, prima di tutto, dalla varietà di oliva.
Noi assaggiamo diversi tipi di olio evo, alla cieca, cercando di determinarne il grado di fruttato, di amaro e di piccante. Queste note variano a seconda della provenienza dell’olio e sono determinanti per classificare la bontà di un olio. A questa fase arrivano soltanto oli già classificati senza difetti dal punto di vista chimico-analitico. 

Ci districhiamo con eleganza tra olio di sole taggiasche ed eccellente olio del Peloponneso, tra olio siciliano e olio pugliese che sono quelli che nel tempo mantengono di più le caratteristiche organolettiche e scivoliamo verso l’ora di pranzo.
Durante la lezione di cucina sotto la guida dello chef Enrico Calvi del ristorante Salvo Cacciatori di Imperia, cerchiamo di imparare a fare un ottimo pesto ligure: la regola è prima l’aglio con il sale, poi gli altri ingredienti ed infine l’olio che si aggiunge quando il pesto è già stato travasato dal mortaio per non ungerlo e rendere difficoltose le future pestature!!

A pancia piena arriva il momento della visita al Museo dell’Olivo.

Il patriarca della famiglia Carli raccoglie reperti sull’olio e sulla sua storia con grandissima passione da moltissimi anni. La visita, come potete immaginare, mi ha affascinato: l’olio d’oliva può raccontare una storia lunga 7000 anni. Appartiene al passato delle civiltà mediterranee e si fonde alle loro vicende storiche, alla loro arte e al loro vissuto quotidiano, restando attuale fino ad oggi.

La visita all’Azienda è molto meno poetica, ma decisamente interessante: 
dalla separazione delle foglie al passaggio delle olive sotto  le enormi molazze di granito, seguiamo tutti i passaggi attraverso la superficie vetrata che circonda il frantoio a ciclo continuo. Tutte le lavorazioni sono sotto i nostri occhi, non si può dire che la Fratelli Carli non lavori alla luce del sole.

Il reparto imballaggio è impressionante: migliaia di bottiglie marciano inarrestabili verso i loro scatoloni, dove viaggeranno verso i consumatori finali. L’olio è filtrato per allungarne la vita, in questo modo non si ossida e può durare fino a 2 anni.

Concludiamo la visita all’azienda Carli con un salto all’Emporio. Qui scopriamo una vasta gamma di prodotti che si svincola dal solo olio extravergine di oliva, ma che racconta una storia lunga millenni di conservazione e di 1000 altri usi, andando dal tonno in scatola sott’olio ai prodotti per la persona.
Visto che si avvicinava il Natale non ho potuto fare a meno di acquistare un panettone all’olio di oliva che, adesso posso dirvelo, era assolutamente delizioso e di una sofficità incredibile!!

Concludo ringraziando l’Azienda della bella opportunità offerta ed augurandomi che altre visite ad altre aziende siano possibili per noi appassionate di cibo, perchè credo che un vero appassionato possa fare la differenza raccontando il “dietro le quinte” dei marchi storici.
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