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Le melanzane marinate di Stefania di Food for the Soul

Di nuovo melanzane direte voi!!! 😀
Ho trovato questa ricettina sul blog Food for the Soul  e ho subito provato a rifarla per due motivi:
– adoro le melanzane con quella puntina di aceto, magari anche un po’ piccantine e questo procedimento è veramente veloce e pratico a confronto con la procedura classica;
– non bisogna accendere i fornelli, perché le melanzane cuociono nell’aceto e quindi d’estate sono veramente ideali da preparare così;

Il procedimento è davvero semplice:

Si prende una bella melanzana fresca e liscia, si lava e si sbuccia e si taglia a fette sottili; ogni fetta viene poi tagliata a striscioline di mezzo cm.
La melanzana così affettata viene messa in un colapasta e cosparsa di sale, affinché perda tutta l’acqua e l’amaro.
Dopo circa due ore, le fettine di melanzana vanno strizzate, messe in un recipiente con l’aceto bianco, e lasciate macerare lì per altre due ore, rigirandole di tanto in tanto, in modo che si “cuociano” uniformemente.
Infine si condiscono con olio extravergine, menta e spicchietti d’aglio.
Io, per farle insaporire più in fretta, ho fatto scaldare leggermente l’olio in un padellino con l’aglio, le foglie di menta e un pezzetto di peperoncino. Scaldandosi, ma attenzione perchè non deve diventare bollente, l’olio si insaporisce più rapidamente dei vari aromi e trasmette alle melanzane il sapore più in fretta.
Infine ho messo la ciotola in frigo a raffreddare.
Si possono preparare la sera prima e si conservano in frigo per 3/4 giorni.

Sono veramente deliziose!!! 😉
ai fornelli, ricette originali, storia & cultura

Spaghetti alla chitarra con peperoni, pinoli e cipolle rosse (anzi viola!) caramellate

«Sembrerebbe un cibo, se non fosse per il suo sapore strano e intenso.» Questa la frase pronunciata da Cristoforo Colombo per presentare all’Europa il peperone, e qui si capisce che Colombo faceva il navigatore e non il pubblicitario. Non credo che in molti potessero essere attratti da una presentazione del genere, ma bisogna capire che il gusto dell’epoca si era formato su ortaggi non troppo saporiti, le rape, ad esempio, o le fave e in pochi potevano essere preparati all’esplosione di sapore del peperone.

Inizialmente fu chiamato pepe d’India, per la sensazione che provocava sulla lingua simile a quella provocata dal pepe, ben conosciuto in Europa e simbolo delle tavole più altolocate.

Gli spagnoli pensarono che anche il peperone potesse servire per ricavarne una spezia e tentarono di farlo conoscere in Europa, cercando di far partire un bel business. I loro sogni di gloria naufragarono però (si può dire, parlando di navigatori???) perché il peperone, sia dolce che piccante, si adattò bene a tutti i climi e in pochi decenni riempì i giardini e gli orti d’Europa e Africa.

Da quel momento anche il più povero contadino poté facilmente fabbricare la sua dose di pepe d’India e parallelamente il gusto sulle tavole nobili, ancora condizionato da zafferano, chiodi di garofano e cannella, cominciò a virare verso l’apprezzamento delle erbette e delle verdurine, cominciando a lasciar un po’ da parte le spezie.

Il peperone intanto si diffuse in Italia da nord a sud, trovando terreno fertile, sia fisicamente, che metaforicamente nelle menti ingegnose dei cuochi improvvisati delle mense povere. Non c’è regione in Italia che non vanti qualche tipica qualità di peperone, da quelli dolci e tondi di Carmagnola in Piemonte, alle varietà più piccanti calabresi. E non c’è regione che non esalti il gusto del peperone con ricette di ogni tipo, dai peperoni con le acciughe piemontesi, alle peperonate venete, al peperone cucinato con il baccalà lungo il Tirreno ai friggitelli pugliesi e ancora alla caponata siciliana. La Calabria ha coltivato il culto di quelli più piccanti, facendone ingrediente irrinunciabile per i prodigiosi salumi e le varie miscele di verdure piccanti sott’olio. Un simbolo dell’Italia nel sud nel mondo? Basti dire che la pizza con il salamino piccante a Los Angeles, Pechino, Sidney e Nairobi si chiama semplicemente “peperoni”. E basta.
[fonti:
http://it.wikipedia.org/
M. Niola, Si fa presto a dire cotto, Il Mulino 2009.]
La ricetta: Spaghetti alla chitarra con peperoni, pinoli e cipolle rosse caramellate.

Avevo trovato questa ricetta sul sito della pasta Garofalo. Senza troppi ingredienti, l’incontro tra i sapori semplici è esaltante, anche con il peperone più insipido, figuriamoci ora che i peperoni sono belli succosi e dolci.
Per due persone, vanno bene:
spaghetti alla chitarra (quanti ne volete)
1 peperone rosso maturo (se vi capita con una nota piccantina, ancora meglio)
1 cipolla rossa di Tropea
1 manciata di pinoli
2 cucchiai di zucchero
1 spicchio d’aglio
1 filetto d’acciuga
olio, sale
Ho pulito il peperone e l’ho tagliato a pezzettini piccoli, tipo dadini.
Ho fatto soffriggere l’aglio in tre cucchiai d’olio, aggiungendo un’acciughina per dare sapore.
Ho versato i peperoni in padella e li ho fatti rosolare un po’, sempre mescolando, e poi ho fatto cuocere aggiungendo un filo d’acqua ogni tanto.
Intanto si può mettere l’acqua per la pasta a bollire.
In un padellino far tostare leggermente i pinoli e metterli da parte.
Ho poi affettato la cipolla finemente e l’ho fatta ammorbidire sul fuoco con un filo d’olio.
Poi ho versato i cucchiai di zucchero. Mentre lo zucchero si scioglie, la cipolla si ammorbidisce, quando è pronta spegnere e tenere al caldo.
Una volta che la pasta era cotta, l’ho scolata e passata in padella con i peperoni.
Poi ho impiattato, mettendo la cipolla sopra la montagnola di spaghetti, in modo che il sughino dolce colasse anche nel centro. Sopra la cipolla e i peperoni ho completato con i pinoli.
L’incontro tra il dolce acidulo e piccantino del peperone e il dolce pieno e rotondo della cipolla è squisito.

secondi di pesce, secondi piatti, storia & cultura

Il merluzzo sulla tavolozza

Il film La ragazza con l’orecchino di perla di Peter Webber, ispirato al romanzo omonimo di Tracy Chevalier, a sua volta ispirato al dipinto La ragazza col turbante di Jan Vermeer è stato candidato a suo tempo ad un sacco di premi ed una valanga ne ha poi portati a casa… 
Già solo il confronto tra Scarlett Johansson e la fanciulla del quadro stupisce per l’accuratezza dei particolari. Questo fa capire molto sulla cura che è stata messa in questa piccola opera d’arte.
 
 
Tra i tanti premi portati a casa dal film, un bel gruzzolo di riconoscimenti è andato ad Eduardo Serra per la Migliore Fotografia.
 
Secondo me la fotografia, le luci, il succedersi delle inquadrature fanno di questo film un piccolo gioiello. Per tutta la durata, sebbene sia lento, non si percepisce lo scorrere del tempo, ma l’attenzione viene focalizzata sugli sguardi, bellissimi primi piano, intervallati da quadri più ampi.
 
Ognuna di queste inquadrature sembra ispirata dai quadri della tradizione olandese e fiamminga.
 
 
 
Una di queste è proprio all’inizio del film, quando ancora scorrono i titoli d’inizio.
Griet si trova nella sua casa di Delft e sta tagliando la verdura. Non la ammucchia disordinatamente, come una qualsiasi massaia affaccendata farebbe. Lei no, lei la dispone ordinatamente in un piatto come fosse una tavolozza. 
La scena del film in cui Griet affetta e dispone le verdure
La telecamera si sofferma sulle sue mani al lavoro, un lavoro preciso, lento e regolare, nell’affettare e nel disporre, roba che farebbe impallidire i moderni cuochi campioni di velocità. Ma chi ama stare in cucina sa che il piacere di cucinare è anche questo, prendersi i propri tempi, gustare i profumi e i colori, provare abbinamenti e accostamenti, lasciarsi andare a un piacevole flusso di pensieri.
La tavolozza di verdure del film mi è rimasta impressa e l’altra sera mi è tornata in mente, durante quel flusso di pensieri, mentre affettavo le verdure per cucinare il pesce.
 
La mia tavolozza è un po’ più modesta…ma ugualmente ho voluto fotografarla.
Domina il giallo delle patate, messo in risalto dal verde intenso del peperone; poi la sfumatura tenue e violetta della cipolla di Tropea e il rosso dei pomodori che si confonde con quello del tagliere.
 
Ho usato tutte queste verdure per insaporire dei filetti di merluzzo. Alla fine anche questa è un’opera d’arte.
 
la ricetta: Merluzzo alle verdure (per 2 persone)
per circa 250 g di filetti di merluzzo ho usato:
due patate grosse
due cipolle medie
un peperone
due pomodori
olio, sale,
un peperoncino secco
un grosso spicchio d’aglio
due filetti di acciuga 
prezzemolo tritato
vino bianco q.b.
 
Per prima cosa ho pulito e affettato le verdure.
Poi ho messo a soffriggere l’aglio e il peperoncino nell’olio, senza farlo dorare troppo.
Ho tolto la padella dal fuoco e ho fatto sciogliere i filetti d’acciuga nell’olio caldo.
Ho rimesso la padella sul fuoco mentre cominciavo a disporvi a strati le verdure, prima le cipolle, poi le patate, i pomodori e i peperoni, intervallando a ciascuno strato un bel pizzico di sale.
Sopra tutte le verdure ho posato i filetti di merluzzo, irrorato con un filo d’olio, un pizzico di sale e abbondante prezzemolo tritato.
Ho versato vino in abbondanza, perchè è l’unico liquido che si aggiunge, e coperto bene la padella perchè non sfiatasse.
Il pesce cuoce nei vapori di vino e verdure, insaporendosi meravigliosamente.
Ogni tanto bisogna dare una scrollatina alla padella perchè le verdure non si attacchino, aggiungendo, ma solo se occorre, un filo d’acqua.
Il piatto è pronto quando le verdure sono cotte.
Disporre nei piatti un tappeto di verdure miste e sopra i filetti di merluzzo.
 
 
ai fornelli, storia & cultura

Gelatine alla carota ripiene di gorgonzola

«Questo formaggio è magico, tra un paio d’anni diventerò l’uomo più conosciuto al mondo!» così disse Piermarco Bergamo, lo scopritore del gorgonzola, intorno alla fine del X secolo, in una taverna nei pressi di Milano.
Si sbagliava: il formaggio da lui inventato divenne il più conosciuto al mondo, mentre di lui si perse ogni traccia.

La ricetta: Gelatine alla carota ripiene di gorgonzola

La ricetta l’ho presa qui, e l’ho leggermente modificata, ma la sostanza rimane quella! Nel ripieno ho messo del gorgonzola a pasta semidura, il cui sapore contrasta piacevolmente con la dolcezza della gelatina di carote; infine ho guarnito il cubetto con una spolverata di pepe nero.

Per 9 cubetti ho utilizzato:
350 g di carote
100 g  di gorgonzola

4 fogli di colla di pesce
sale
2 noci
pepe nero
crema di aceto balsamico (o aceto balsamico!)

Preparazione:
Ho pelato e cotto le carote a pezzetti, poi le ho frullate, con un po’ della loro acqua, fino ad ottenere una crema.
Ho aggiustato di sale.
Poi ho suddiviso il composto in due parti.
Ho ammorbidito 2 fogli di gelatina in un po’ d’acqua fredda, per 10 minuti; poi l’ho fatta sciogliere velocemente sul fuoco con un cucchiaio d’acqua e l’ho mischiata ad una metà di crema di carote.
Ho messo il composto in un recipiente quadrato, precedentemente rivestito di carta da forno bagnata e strizzata, e messo in frigo per almeno due ore.
Poi ho tagliato il gorgonzola in 9 cubetti, l’ho disposto regolarmente sopra la gelatina di carote, che si è nel frattempo rappresa, ed infine ho ricoperto il tutto con la seconda parte di crema di carote, amalgamata alla gelatina restante (2 fogli) con lo stesso procedimento di prima.
Di nuovo in frigo, questa volta fino a pochi minuti prima di servire.
Tagliare il panetto ottenuto facendo attenzione a non beccare il ripieno, e spolverare leggermente ogni cubetto con pepe nero.
Ho decorato il piatto con un giro di crema di aceto balsamico e delle noci sbriciolate.

ai fornelli, storia & cultura

Torta Delicata allo Stracchino e Zucchine al Profumo di Menta

Felice Casorati – Scodella e zucchini
È un’invenzione medievale quella della torta (o pasticcio, pastello o coppo…) con cui si indicava un recipiente di pasta, messo al forno, al duplice scopo di contenere e cuocere un ripieno.
Questo tipo di preparazione era conosciuto anche nella cucina romana, ma non era stato adeguatamente valorizzato. 
A partire dal Medioevo i libri di cucina iniziano a fiorire rigogliosamente di torte, con una preparazione ben più complessa dell’adattabile prodotto da forno in pastasfoglia (o in pasta brisé!!!) che ci è familiare.
Il Liber de Coquina trecentesco prevede per la Torta Parmesana, almeno sei differenti strati di ripieno dentro l’involucro di pasta:
  • pezzi di pollo fritto con cipolla e spezie
  • ravioli al formaggio bianchi e verdi
  • salsicce di carne e prosciutto
  • fette di carne di maiale con formaggio e uova
  • salsicce di interiora
  • ravioli insaporiti con mandorle e zucchero
…e via dicendo altri strati.
Il tutto veniva richiuso con un altro strato di pasta, decorato di prugne e cotto aggiungendo lardo. Il tutto viene poi presentato al signore del castello con “gran pompa”.
Questa ricercata presentazione ha fatto supporre che parmesana derivi, non dalla città di Parma, ma da torta a forma di torre.
Ora più che della derivazione del nome mi preoccuperei del sopraggiungere di ipertensione a coloro che si avventuravano nell’assaggio di questa bomba!!!
A parte questa mostruosità della Parmesana, la cultura medievale associa le torte soprattutto alle verdure.
Il Platina, l’umanista rinascimentale che tradusse in latino tutte le ricette del Libro de Arte Coquinaria di Maestro Martino, scrisse «la pietanza che chiamiamo comunemente torta, credo prenda il nome dal fatto che le verdure, di solito usate per confezionarla, vengono tagliate e tòrte, cioè strizzate».
Chi poteva ci metteva dentro anche pasticci di carne, soprattutto di pollame o cacciagione da piuma.
Chi non poteva si mangiava la buccia, come i cittadini di Parma (sempre Parma!!!) che durante la carestia del 1246 si accontentavano di cuocere torte senza ripieno, ed è drammatico se si pensa che spesso l’involucro di pasta non era fatto per essere mangiato, ma era una vera e propria imitazione del recipiente di cottura, durissimo – durior et forcior – e bruciacchiato.
Il cuoco rinascimentale Bartolomeo Scappi ci illustra tre diverse tipologie di fondo: pasticci, crostate e torte.
Il pasticcio era l’involucro alla medievale, di pasta dura, non necessariamente da mangiare; le crostate e le torte avevano il fondo di pasta a strato sottile, simile alla nostra pasta sfoglia e condita con il burro o con lo strutto. Le crostate avevano nel ripieno pezzi interi di carne, pesce, verdura o frutta; le torte, invece,erano riempite con un impasto amalgamato.
Alla luce di ciò quella che ho preparato oggi è più una crostata che una torta…sicuramente è più leggera della Parmesana medievale…
La ricetta: Torta delicata allo stracchino e zucchine al profumo di menta
Ingredienti (per 2 porzioni abbondanti da piatto unico, per intenderci)
1 zucchina grossa di circa 300 g
150 g di stracchino allo yogurt
12-15 foglie di menta fresca
2 cipollotti freschi
sale, olio
un dito di vino bianco
1 pasta sfoglia già pronta
Preparazione:
Ho affettato il cipollotto e l’ho messo a soffriggere leggermente in un filo d’olio, quando era ammorbidito, prima che colorasse ho aggiunto le zucchine, tritate a julienne. Ho lasciato insaporire qualche minuto, poi ho aggiunto il vino, lasciato sfumare, aggiustato di sale.
Quando le zucchine avevano perso un po’ di croccantezza le ho tolte dal fuoco. Devono essere asciutte.
Sulla sfoglia stesa ho messo lo stracchino a tocchetti e completato con il trito di zucchine, ripiegato gli angoli di pasta in eccesso e messo in forno già caldo a 170° finchè non mi è sembrata cotta.

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