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Pesche grigliate e Asiago: l’accoppiata frutta e formaggio colpisce ancora

La pesca è stata considerata nei secoli un frutto da nobili. Come la pera, facilmente deperibile, quando non c’era la tecnologia del freddo, andava colta e consumata, ovviamente sulle tavole più raffinate, e non poteva entrare a far parte della dispensa se non in rari casi, sciroppata. Non che i ceti bassi non conoscessero la bontà di questo frutto.
Esiste infatti una novella dell’umanista quattrocentesco Sabadino degli Arienti che narra di un nobile e di un popolano contrapposti nella conquista delle pesche migliori. 
Il nobile, Messer Lippo Ghisilieri, aveva un giardino splendido e famoso, come allora si usava, ricco di ogni specie di erbe pregiate e frutti deliziosi. Fra questi c’erano anche alcuni alberi di pesco, carichi di frutti.
Quasi ogni notte il contadino Zuco Padella si creava un varco nella siepe che proteggeva tutto l’orto d’intorno e, raggiunti gli alberi di pesco, si portava via un bel po’ di frutti.
Il furto ripetuto e sfacciato mise in allarme Messer Lippo. Non si trattava di un furto occasionale, dettato dalla fame, ma di una vera sfida all’equilibrio di classe.
Messer Lippo per smascherare il ladro fa disseminare il terreno tutt’intorno agli alberi di trappole con chiodi rivolti all’insù.
La notte seguente Zuco Padella torna nel giardino e si punge l’alluce con uno di quei chiodi. Per nulla scoraggiato architetta una sorta di trampoli, con al fondo dei ferri da cavallo, in modo da lasciare sul terreno impronte d’asino e nel contempo non ferirsi e la notte seguente ritorna a rubare le pesche di Lippo.
Messer Lippo a questo punto pensa che sia davvero un asino a rubare i suoi frutti. Li fa cogliere tutti tranne quelli di un albero e intorno a questo fa scavare un fossato profondo, come una trappola per lupi, e si mette personalmente di guardia.
Zuco Padella si fa aspettare per tre notti ma, alla fine torna nel giardino sui suoi trampoli. Raggiunge l’unico albero carico di frutta e… cade nel fossato.

Messer Lippo, che non era un nobiluomo nel senso più profondo del termine, fa gettare nel fosso dell’acqua bollente e, mentre Zuco Padella chiede pietà, lo fa tirare su e lo rimprovera per essersi avvicinato a un frutto da nobili: «Bene, bene! È stata una caccia fruttuosa: volevo prendere un lupo e invece ho preso l’asino che mi mangiava le pesche.
Villano e ladrone che non sei altro! Credevi di gabbare Lippo e invece lui ti ha fottuto, che ti vengano mille cacasangui!  
Un’altra volta lascia stare la mia frutta e mangiati la tua, cioè rape, agli, porri, cipolle e scalogni con pan di sorgo!»
Proprio questa frase ci fa capire che la gelosia di Messer Lippo nei confronti delle proprie pesche sia di ragione morale: nessun villano si deve avvicinare ad un frutto da nobili!!!
Con le ultime pesche della stagione ho preparato un antipasto leggerissimo dal gusto delicato e dolce. 

La ricetta: Pesche grigliate con Asiago, miele e aceto balsamico.
ingredienti per 2/3 persone.
2 pesche mature ma sode, (sono ideali le percoche che non tirano fuori troppa acqua)
alcune fette di Asiago pressato dop, a stagionatura media, spesse 0,5 cm
tre cucchiai di miele
1 cucchiaino di aceto balsamico
semini di sesamo
sale rosa dell’himalaya (ma va bene anche qualche granello di sale grosso marino)
Ho preparato una salsina per far da base al piatto, mescolando il miele con l’aceto balsamico e mescolandolo con qualche goccino di acqua calda. Deve divenire molto fluida, quasi liquida.
Ho tagliato a fette le pesche, già lavate e sbucciate, e le ho disposte su una bistecchiera ricoperta di carta da forno.
Mentre le pesche grigliavano le ho man mano girate per farle dorare dall’altro lato.
Sui piatti ho messo la salsa preparata in precedenza. Poi vi ho disposto ordinatamente le fettine di Asiago.
Sul formaggio ho distributo le pesche ben calde, in modo che lo ammorbidissero e ho completato il tutto con qualche mini pezzettino di asiago, un altro filo di miele, dei semini di sesamo e qualche granello di sale rosa che si scioglierà quasi all’istante.
Sono perfette accompagnate da pane tostato di segale o ai cereali.

ai fornelli, buffet salato, insalate e piatti freddi, storia & cultura

Prosciutto e melone nel cestino di sfoglia

In Italia si usa servire il prosciutto crudo con il melone, come antipasto estivo o come piatto leggero.
Questo accostamento è in realtà frutto di un tramandare secolare di abitudini che affondano le radici in una cultura antica.
Già dal medico e filosofo greco Ippocrate nasce la visione del mondo basata su coppie di contrari: caldo-freddo, secco-umido… così come accade con le filosofie orientali, ad esempio con lo yin e yang taoista, su cui si fonda l’armonia universale.
Dall’antica Grecia quindi deriva anche l’uso di associare ogni cibo con il suo contrario, anche il melone, cibo freddo, con il prosciutto, cibo caldo, ma si veda anche in Vietnam l’abitudine di accostare frutti come meloni o cocomeri, ad un misto di sale e peperoncino. Più vicino a noi, in Francia, il melone viene servito con il sale o a volte, per lo stesso principio, con un vino dolce e forte. Il viaggio nell’antichità trova quindi riscontro anche in un viaggio spaziale, dall’estremo Oriente ai nostri vicini di casa.
 
Dal Medioevo in avanti, per molti secoli, la frigidità del melone, che lo porta oggi ad essere un cibo estremamente desiderabile per trovare ristoro dalla calura, era considerata non solo negativa ma addirittura pericolosa. Teniamo conto che i frutti dell’epoca erano molto vicini allo stato selvatico e quindi maturavano più difficilmente ed erano di sicuro più indigesti. Fatto sta che mangiare un frutto freddo come il melone senza stemperarlo con un cibo caldo, poteva essere la causa di spiacevoli indigestioni.
In particolare è famosa la triste sorte toccata al Papa Paolo II, morto all’improvviso nella notte del 26 luglio 1471. Il colpo apoplettico che lo colpì fu subito attribuito, dai medici che lo avevano in cura, ad una sorprendente scorpacciata di meloni che il Papa si era fatto subito prima di andare a dormire. La testimonianza  di Nicodemo da Pontremoli, parla di «tre poponi non molto grandi» ed «altre cose di triste substantia» verso le dieci di sera; ne parla anche Platina, che scrisse la biografia del Papa, dicendo che «si dilettava moltissimo a mangiare meloni, e da ciò si crede che sia stata provocata l’apoplessia da cui fu strappato alla vita. Infatti la sera prima di morire aveva mangiato due meloni, per giunta assai grandi». Che i meloni fossero tre piccoli o due grandi ha poca importanza, di certo ne mangiò abbastanza perché gli restassero sullo stomaco…anche se a guardare il suo ritratto viene il dubbio che non mangiasse soltanto meloni!!! 🙂
[fonti: 
http://it.wikipedia.org/
M. Montanari, Il riposo della polpetta, Laterza 2011.]
 
Con qualche fetta di melone al pasto non si rischia come con tre meloni interi, però l’abbinamento con il “caldo” prosciutto crudo rimane uno dei migliori, soprattutto per il contrasto di dolce e sapido che personalmente adoro.
 
La ricetta-non ricetta: Insalata nel cestino con prosciutto e melone.
 
Di fatto è una ricetta molto semplice, ma con una presentazione speciale che ho spesso preparato per una cena tra amici.
Ho creato un cestino di pastasfoglia, aiutandomi con degli stampini di alluminio, formato-muffin. Basta ritagliare la pastasfoglia pronta a forma di quadrati e adagiarla sugli stampini, infornando per un quarto d’ora a 170°.
All’interno del cestino, una volta raffreddato, ho messo della valeriana condita con qualche goccia di crema di aceto balsamico, delle roselline di prosciutto crudo (per 4 cestini vanno bene circa 2 etti) e delle palline di melone, ricavate con l’apposito scavino e rotolate nei semini di papavero. Ho completato con la croccantezza di una manciata di anacardi salati.
 
Unica accortezza, riempire i cestini subito prima di portare in tavola per far restare croccante la pasta sfoglia.
 
Con questa insalata nel cestino partecipo alla raccolta di Burro e Miele “Chi mi aiuta a raccogliere l’insalata?”.
 
dolci, storia & cultura, torte

Gerard Ter Borch – Donna che sbuccia le mele (e la torta di mele caramellata alla francese!)

Gerard Ter Borch – Donna che sbuccia le mele – 1650 circa
 
 
 
Gerard ter Borch nacque nel 1617 a Zwolle nei Paesi Bassi. Cominciò a disegnare all’età di 8 anni e fu allievo di suo padre Gerard detto il Vecchio.
 
Dal 1632, dopo un breve soggiorno ad Amsterdam dove fu incoraggiato da diversi artisti, entrò nello studio di  Pieter de Molyn, ad Harleem, dove rimase fino al 1635, e da cui acquisì il gusto per la semplicità della composizione.
 
Nel 1635 si mise in viaggio visitando prima Londra e successivamente la Germania, la Francia, la Spagna e l’Italia. Nel 1641 si hanno sue notizie a Roma dove dipinse il piccolo ritratto su supporto di rame Jan six and the young lady.
 
Dopo il 1648 venne invitato a Madrid presso Filippo IV, dove poté studiare lo stile di Velasquez, ma a causa di un intrigo di corte presto si vide costretto a tornare in Olanda.
 
Si sposò nel 1654 con una delle sue nipoti a Deventer, dove divenne il borgomastro e dove i notabili della città si disputarono l’onore di farsi fare un ritratto da lui.
 
Morì a Deventer nel 1681.
 
 
 
Ter Borch fu un eccellente ritrattista, ma ancor di più pittore di genere, dedicandosi principalmente a riprodurre scene di vita domestica e familiare. Riprodusse con uno stile estremamente fedele la gente del suo tempo, dando particolare evidenza all’espressività dei personaggi, senza alcuna traccia di leggerezza o grossolanità.
 
Egli raggiunse l’eccellenza nella riproduzione di tessuti e di drappeggi, del rilucere di un vaso d’argento o nel rendere la trasparenza di una coppa di cristallo o la texture di un tappeto. I suoi colori sono sempre vibranti ed è evidente l’armonia della luce.
 
 
 
 
 
[Fonti:
 
 
Kunsthistorisches Museum, in Musei del Mondo, collana diretta da Carlo Ludovico Ragghianti, Mondadori, pp. 142-143.]
 
 
 
Il dipinto, di data incerta, ma appartenente alla piena maturità dell’artista, rappresenta una scena di intimità domestica, dove una donna sbuccia delle mele davanti allo sguardo attento di quello che potrebbe essere il figlioletto.
 

Ter Borch non si sofferma su molti particolari, ma la sua trattazione è quasi impressionista ante litteram, vista la morbidezza del colore e della luce.

 
L’attenzione dell’osservatore si sofferma principalmente sul triangolo formato dagli sguardi della donna, verso le proprie mani e del bambino verso il volto della madre. Infatti ciò che mi colpisce è il fatto che il bimbo, vero centro geometrico dell’opera, non stia aspettando le mele, quanto piuttosto sia in attento ascolto di ciò che la madre gli sta raccontando. La luce evidenzia la gota del bimbo dandogli un’espressione di morbida tenerezza.

 

Gli altri oggetti nella stanza fanno da cornice alla scena principale. Le mele nel piatto di ceramica, rese con fedeltà ma senza cadere nella maniera, e sul tavolo una lunga buccia di mela; il candelabro d’argento, anch’esso luccicante sotto i raggi di luce; la tovaglia di velluto scuro.

 
 

Ter Borch dimostra la sua perizia anche nel rappresentare l’abito con bordi di pelliccia della donna. La stoffa manda bagliori dorati e le bordure chiare sono rese con tale maestria da sembrare a rilievo.

 

Ai piedi della donna un altro particolare narrativo: il cesto con la biancheria da ricamare o rammendare, con la grossa scatola del cucito, attende che tutte le mele siano state sbucciate.

 

 
 
 
 
 

La ricetta: Torta di mele caramellata alla francese

 
Ho trovato questa idea su un blog francese e subito mi è sembrata di una golosità straordinaria e quindi l’ho voluta riproporre modificando un po’ gli ingredienti.

 

 
 

 

 
 
 
 
In Francia hanno una cosa, chiamata sucre glace, che viene utilizzato per fare il caramello. Altro non è che zucchero a velo, addizionato di fecola, così che il caramello rapprenda.
 
Non avendo questo prodotto, ho utilizzato dello zucchero normale e dopo averlo fatto caramellare con l’acqua ho aggiunto la maizena per far inspessire lo sciroppo.
 
 
 
 
 
Per una tortiera di 23 cm di diametro occorrono:
 
 
 
Fondo della torta:
 
1 pasta sfoglia pronta
 
qualche cucchiaino di zucchero
 
 
 
Mele:
 
4 mele piccole
 
25 g di burro
 
qualche cucchiaio di zucchero di canna
 
 
 
Caramello:
 
200 g di zucchero
 
½ bicchiere d’acqua
 
2 cucchiaini colmi di maizena
 
½ bicchiere di latte intero (o panna, ma io non ce l’avevo)
 
30 g di burro
 
1 pizzico di sale
 
 
 
 
 
Fondo della torta:
 
Ho messo la sfoglia in una teglia, arrotolando un bel bordo e colmandola di fagioli e l’ho fatta cuocere a 180° per 20 minuti. Poi ho tolto i fagioli e spolverato di zucchero il fondo e rimesso in forno per qualche minuto ancora, per renderla croccante.
 
 
 
Caramello al latte:
 
In un pentolino ho fatto sciogliere lo zucchero con l’acqua a fuoco lento, aggiungendo dopo la maizena. Poi fuori dal fuoco, ho aggiunto il latte e il burro e mescolato ancora per un po’, aggiungendo anche un bel pizzico di sale.
 
 
 
Mele:
 
Le ho lavate, sbucciate, tagliate a fettine e irrorate di succo di limone. Poi le ho passate in padella con il loro succo e qualche cucchiaio di zucchero di canna e 25 g di burro. Quando le mele avevano perso un po’ del loro succo, le ho messe nel fondo della torta, prima preparato e ho irrorato con un po’ di caramello al latte.
 
Ho rimesso in forno il tutto per ancora 1o minuti e infine fatto caramellare per qualche minuto sotto il grill.
 
 
 
Per servire, versare nel piattino qualche cucchiaiata di caramello al latte, tiepido, con sopra la fetta di torta e (se li avete) qualche confetto sbriciolato (io ci ho messo pezzettini di mandorla e di cioccolato).

 
 
 
 
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