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Salone del Gusto Off: scoprire l’Urban Farming a Torino #CoronaVerde e #UrbanFarming per Salone del Gusto

 
Il Salone del Gusto è alle porte, importantissimo momento turistico per la città di Torino, che dal 23 al 27 ottobre diventerà crocevia delle culture gastronomiche di tutto il mondo.
 

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Salone del Gusto Off: scoprire l’Urban Farming a Torino #CoronaVerde e #UrbanFarming per Salone del Gusto" class="facebook-share"> Salone del Gusto Off: scoprire l’Urban Farming a Torino #CoronaVerde e #UrbanFarming per Salone del Gusto" class="twitter-share"> Salone del Gusto Off: scoprire l’Urban Farming a Torino #CoronaVerde e #UrbanFarming per Salone del Gusto" class="googleplus-share"> Salone del Gusto Off: scoprire l’Urban Farming a Torino #CoronaVerde e #UrbanFarming per Salone del Gusto" data-image="https://www.ricettedicultura.com/wp-content/uploads/2014/10/urbanfarmingortaggi_zps5227e0b6-565x660.jpg" class="pinterest-share">
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Keke fa’i per la A di Apia, Samoa

Le banane non mi hanno mai fatto impazzire, né il gelato, né lo yogurt, aromatizzato a questo gusto, né da sole. Le mangio solo per il potassio che contengono. E poi è accaduto che nel giro di dieci giorni ho fatto ben due torte di banane.
La prima era una classica banana cake, alla maniera americana, e mi è piaciuta; la seconda è questa keke fa’i, torta di banane di Samoa, per l’Abbecedario Culinario Mondiale, ospitato per queste prime tre settimane da Marta del blog Mangiare è un po’ come viaggiare.
Mi è piaciuta ancora più della prima!
Soffice, soffice, veloce e perfetta. Ho solo sostituito una piccola parte di farina con della farina di cocco, per darle una consistenza più particolare.

La ricetta: Keke fa’i ricetta tratta da Samoa Food leggermente modificata.


(per uno stampo piccolo da 18 cm)

1/2 cup di farina 00
1/4 cup di farina di cocco
1/2 cucchiaino di lievito in polvere
1 pizzico di sale

65 g di burro morbido
1/4 cup + 1 cucchiaio di zucchero di canna
1 uovo
i semini di un pezzetto di bacca di vaniglia
1/2 cup di banana molto matura schiacciata
1/2 cucchiaino di bicarbonato di sodio
1/4 cup (scarsa) di latte

Imburrare e infarinare uno stampo a cerniera.
Scaldare il forno a 180°C.
Mescolare insieme farina, sale e lievito.
Lavorare il burro morbido assieme allo zucchero. Aggiungere l’uovo,  i semini di vaniglia e infine la banana.
Aggiungere questo composto agli ingredienti secchi preparati in precedenza.
Sciogliere il bicarbonato nel latte caldo e poi aggiungere il tutto all’impasto.
Infornare per 30 minuti e fare la prova stecchino per valutare la cottura, prima di sfornare.

Questa ricetta partecipa alla raccolta dell’Abbecedario Culinario Mondiale:

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Panipopo per la A di Apia, Samoa

L’Abbecedario Culinario è ripartito in versione Mondiale e anche quest’anno sono tra le ambasciatrici del progetto con immenso onore e con un pochino di vergogna, perchè lo scorso abbecedario (quello europeo) ho fatto molto meno di quello che avrei voluto che, ve lo devo dire, qui la costanza spesso vacilla!
Ma mi rimetto alla prova e il miglior modo per iniziare è quello di partire dalla A.
Mondo, arriviamo e la lettera A corrisponde ad Apia, la capitale di Samoa.

Ci troviamo in Oceania e dalla mappa potete comprendere quanto piccoline siano le due isole in questione. Occupano una superficie di poco meno di 3000 km quadrati, un decimo della superficie italiana.

 

Però sono 3000 km quadrati di paradiso terrestre. Il primo contatto con gli europei si ebbe sono all’inizio del XVIII secolo, ed erano contatti molto sporadici con viaggiatori e scopritori per mare, mentre i primi missionari giunti sulle isole per abitarvi stabilmente comparvero intorno al 1830.

Il clima ci fa invidia in questi primi giorni freschi, perchè le temperature non scendono, in inverno sotto i 20 gradi. In estate, in ogni caso, io preferisco rimanere ai climi europei, visto che a Samoa le temperature oscillano tra i 40 e i 48 gradi con quasi 8000 mm di pioggia durante la stagione dei monsoni.
Per il resto immaginate un paesaggio insolito e sorprendente,di origine vulcanica con una cima di 1858 m per il vulcano Mauga Silisili al centro dell’isola Savai’i.

Una curiosità: uno dei primi occidentali ad insediarsi stabilmente in Samoa fu Robert Louis Stevenson, con una produttività varia e smisurata in cui spiccano i romanzi “L’Isola del Tesoro”, “La Freccia Nera” e “Lo strano caso del Dr. Jekill e del Signor Hide”. Stevenson, da sempre di salute cagionevole, ed ispirato dai racconti esotici di Melville, accettò di trasferirsi nel sud del Pacifico con la famiglia per scrivere di quei luoghi. Toccò le Isole Marchesi, Tahiti e le Sandwich, Honolulu ed infine Upolu, a Samoa. Qui restò fino alla morte, nell’ammirazione della popolazione indigena che lo soprannominò Tusitala, narratore di storie.

Come prima ricetta di Samoa (ma cercherò di farne un’altra) vi propongo i panipopo, deliziosi panini “affogati” in uno sciroppo di latte di cocco, ingrediente onnipresente in quasi tutta la cucina samoana.
Il popo in questione è proprio il nostro cocco.
Purtroppo un po’ di peripezie hanno accompagnato la nascita di questi panipopo, prima grossolani errori miei, poi un tempo e una luce davvero poco adatta a fotografarli.
Alla fine eccoli qui, seppure un po’ sgranati, con alcuni suggerimenti rispetto alla ricetta tradizionale:
– ho impastato a mano; se impastate con una planetaria la quantità d’acqua va bene, altrimenti meglio ridurla leggermente;
– io ho usato zucchero di canna;
– anche se lo sciroppo di cocco vi sembra tanto, versatelo tutto e vedrete che i panipopo lo assorbiranno;
– usate una teglia che non sia a cerniera, altrimenti tutto lo sciroppo colerà via, invece di ammorbidire il fondo dei panipopo.

La ricetta: Panipopos ricetta tratta da Samoa Food

1 pacchettino di lievito di birra disidratato
2/3 di cup di acqua tiepida (fino a 1 cup, se impastate con la planetaria)
1/2 di cup di zucchero di canna grezzo
1/2 cucchiaino di sale
1 uovo (piccolo)
2 cucchiai di olio vegetale (per me arachidi)
circa 3 cup di farina tipo 0 (o un po’ di più, ma senza “asciugare” troppo l’impasto)

per la salsa di cocco:
200 ml di latte di cocco
200 ml di acqua

100 g di zucchero grezzo di canna
Sciogliere il lievito nell’acqua tiepida e aspettare 10 minuti che cominci a fare delle bollicine.
Da parte mescolare tutti gli ingredienti secchi: farina, sale e zucchero.
Aggiungere l’acqua e lievito e poi di seguito l’olio vegetale: formare un impasto aiutandosi con una forchetta. Aggiungere anche l’uovo sbattuto leggermente. Aggiungere ancora qualche cucchiaio di farina per far prendere corpo all’impasto che deve comunque restare molto morbido.

Far riposare per 10 minuti, poi coprire con pellicola e riporre in un posto caldo fino al raddoppio.
Sgonfiare l’impasto e poi procedere o formando delle palline, oppure, come ho fatto io, formare i panipopo come girelle: stenderlo in un rettangolo, aiutandosi con un po’ di farina, arrotolarlo su stesso e tagliare questo rotolo in 14 fette.

Mettere le fette di impasto in due teglie del diametro di 20-21 cm, coprire con pellicola e portare a raddoppio.
Preparare la salsa al cocco: diluire il latte di cocco con acqua e zucchero, facendo ben sciogliere quest’ultimo.
Quando i panipopo sono raddoppiati, scaldare il forno a 180° e, quando è caldo, cospargerli di salsa, abbondando. La salsa deve restare sul fondo della teglia, rendendoli umidi nella parte più bassa e verrà poi assorbita dai dolcetti in cottura e dopo.
Infornare per 20 minuti e poi lasciar intiepidire.
I panipopo si servono accompagnati da un po’ di salsa rimasta sul fondo della teglia.

 

Questa ricetta partecipa alla raccolta dell’Abbecedario Culinario Mondiale:

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Torta al miele e mandorle e l’inizio della “storia del miele”

Parliamo di miele. E non è mica cosa semplice… L’inchiostro in materia è davvero un mare, perchè il miele ha una storia lunga quanto il mondo.

Per chi sa che viene prodotto dalle api ma non ricorda bene il procedimento (come la sottoscritta, fino a ieri!) ecco cosa accade: le api esploratrici succhiano il nettare dal fiore e quando si sono ben riempite il pancino (in realtà la sacca mellifera è posta prima dello stomaco) tornano all’alveare e lo passano ad altre api. Per ogni bottino di miele il passaggio viene fatto altre 100 volte, di stomachino in stomachino, arricchendosi di enzimi preziosi che trasformano il nettare in miele. A questo punto il miele liquido, contentente oltre il 70% di acqua, e deposto nella celletta, viene asciugato dalle api con il movimento delle ali, come una sorta di phon naturale, che consente di arrivare al 18% di presenza di acqua. A questo punto il miele, che grazie al suo contenuto zuccherino si può conservare per anni, viene sigillato dentro la celletta con la cera.
Le api da cui proviene il miele italiano sono in massima parte della specie mellifica ligustica che, oltre ad avere un buon carattere, produce anche un’elevata quantità di miele in eccesso, rispetto al fabbisogno di sostentamento dell’alveare. Per questa ragione il miele in più può essere prelavato dall’apicoltore e trasformato.

Tralasciando la parte puramente biologica, e correndo per un milione di anni indietro nel tempo, il miele, ben prima di tornare “di moda” per le sue tante proprietà salutistiche era l’unico ingrediente in grado di dolcificare i cibi, ben prima della scoperta dello zucchero, almeno in questa parte del mondo. 
Giusto per dare qualche parametro sullo zucchero: esso era già conosciuto in Polinesia dal XIII secolo a.C., e dal VI secolo a.C, diffuso anche nella Persia di Re Dario. La diffusione, invece, la si deve agli arabi, sempre grandi commercianti dall’Oriente all’Occidente, che lo conoscevano già dal VI secolo a.C. e incominciarono a farlo viaggiare, insieme alla canna da zucchero, dal VII secolo d.C con la loro grande espansione verso l’Europa.
Ma torniamo al miele. La sua fortuna è ben più antica. 
Le api sociali avrebbero
un’età che va dai 20 ai 10 milioni di anni
, e permettetemi di
sorridere su questa approssimazione di soli 10 milioni di anni. L’uomo
è comparso solo 1 milione di anni fa e da subito cominciò ad
approfittare di questa dolcezza di natura: questa è una pittura rupestre trovata nella zona di Valencia, in Spagna, che rappresenta un raccoglitore di miele, con accanto il favo e le api in volo che sembra raccontare nei dettagli una tecnica di raccolta utilizzata ancora oggi in India.
La parola miele, melit, viene trovata per la prima volta su una tavoletta ittita; nel codice di Hammurabi erano previste pene severe per chi svuotava illecitamente un’arnia; e sulle iscrizioni geroglifiche egizie la letteratura in materia diventa una mole interessante, con prove “dipinte” del fatto che era già diffusa l’apicoltura. E quando Ra, il dio Sole, piangeva d’amore, queste erano lacrime di miele.
Per i Greci il miele era il cibo degli Dei, l’Ambrosia, ma soprattutto il nutrimento che permise la sopravvivenza del primo e più importante dei loro dèi, Zeus, quando era minacciato dal padre Kronos, tristemente conosciuto per l’abitudine a cibarsi della propria prole. Le leggende in merito sono tante, un vero e proprio intreccio di storie, dove ninfe, figlie di re e animali mitologici intrecciano le loro vincende; alla fine il succo è questo: la capra Amalthea, o una ninfa con questo nome e la ninfa Melissa, poi trasformata in ape, nutrirono il piccolo Zeus con latte e miele.
E una torta con yogurt greco, panna, miele e mandorle è il migliore accompagnamento a questo groviglio di storie.
La ricetta: Torta al miele e mandorle (da una ricetta “Duchy Originals”, rivisitata da me)
175 g di farina di grano tenero
200 g di mandorle tritate finemente
100 g di miele (per me MielBio Rigoni d’Asiago -Tiglio)
100 g di zucchero di canna
150 g di yogurt greco
50 g di panna fresca
1 uovo
2 cucchiaini di lievito per torte 
1 manciata di mandorle a lamelle
Imburrare e infarinare la teglia (21-22 cm di diametro).
Accendere il forno a 160°.
Mescolare con una frusta zucchero, yogurt, panna, miele e tuorlo del’uovo.
Montare a neve l’albume.
Aggiungere poi al composto la farina, con il lievito in polvere e le mandorle tritate, mescolando bene.
In ultimo incorporare con cura l’albume montato a neve.
Trasferire nella teglia ed infornare per circa 40 minuti. (con prova stecchino e senza far scurire troppo la superficie).
Spennellare la superficie della torta con 1 cucchiaio di miele allungato con acqua e distribuire le lamelle di mandorla.

Io l’ho accompagnata con yogurt greco al naturale e mirtilli…ma era ancora settembre…naturalmente si presta a qualsiasi frutto di stagione

[fonti: 
http://www.mieliditalia.it/index.php/mieli-e-prodotti-delle-api/miele/80136-il-miele-attraverso-i-secoli
http://www.placidasignora.com/2012/11/18/le-lacrime-di-ra-storie-proverbi-e-curiosita-sul-miele/
http://bifrost.it/ELLENI/2.Teogonia/06-Nascita_di_Zeus.html]

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Il wurstel agricolo GusterLuiset con miele e senape e un contorno agrodolce

Vi siete mai chiesti cosa c’è dentro un wurstel? La letteratura in materia racconta di tutto…anche l’inenarrabile.
Per raccontare il proprio wurstel, l’Agrisalumeria Luiset ha invece scoperto tutte le carte in tavola, facendoci vedere gli ingredienti e la preparazione durante l’istruttiva giornata di visita alla loro azienda.
Eccoli, gli ingredienti del Guster Luiset, un wurstel di puro suino, che abbiamo visto confezionare passo dopo passo:

Unico conservante il salnitro, obbligatorio per legge nelle carni conservate e nella proporzione che vedete.

Da qui è stata illustrata la preparazione: le carni utilizzate sono le
rifilature del prosciutto
, quello che per essere cotto deve entrare in
uno stampo rettangolare come questo a destra.
Le parti in eccedenza, che non entrano nella forma, vengono quindi tagliate via e raccolte per diventare Guster.
La carne, condita con tutti gli ingredienti sopracitati, viene tritata assieme a del ghiaccio, per evitare il surriscaldamento, per tre volte, attraverso una trafila da 3 millimetri. Poi è insaccata in budello di montone, assolutamente naturale, ammorbidito in acqua calda.
Infine mani pazienti arrotolano i wurstel per appenderli e cuocerli. Anche la cottura è lenta: dura circa 90 minuti a bassa temperatura dai 50 ai 70 °C, poi il Guster viene anche affumicato con fumo liquido, il procedimento più sano per affumicare.

Gino Casetta, il fondatore di Luiset, ci spiega che più la grana di un salume è fine più è facile farci entrare di tutto. Per questo avere una così grande attenzione per il wurstel, tra l’altro uno dei salumi più amati dai bambini, è una garanzia di attenzione per tutti i suoi salumi.
Sentir parlare il signor Gino del suo mestiere è affascinante: la gavetta in salumeria per appendere tutte le tecniche di trasformazione della carne – da giovane lui andava di cascina in cascina per la macellazione del maiale – e il suo percorso fatto di esperienza e pazienza per le cose “lente”. 
La carne più adatta per la preparazione dei salumi è quella del maiale maturo, di almeno un anno di età e che ha raggiunto i 200-230 chili. Questi sono frutto di un accrescimento lento, e il risultato sono carne e grasso sodi. I maiali vengono allevati nei campi adiacenti l’azienda, nella cascina di famiglia a San Secondo di Ferrere (AT) e alla Cascina Milandra di Oviglio (AL).
Tutto il resto lo fa la perizia nelle preparazioni, nel modo di dosare le spezie e il vino. Luiset vanta una collezione di 35 prodotti diversi, per incuriosire e ingolosire ogni palato.
Una ricca gamma di questi salumi l’abbiamo provata durante il pranzo. Guardate che meraviglia:
E naturalmente abbiamo potuto assaggiare il Guster declinato in diverse ricette dello chef Bruno Cingolani del ristorante Dulcis Vitis di Alba, accompagnate dai vini dell’Azienda Agricola Pescaja.

Non potevo non contribuire con una ricetta che spesso utilizzo per le salsicce. Si è rivelato azzeccatissimo anche il contorno, con la giusta punta di agrodolce.

La ricetta: Wurstel Agricolo al forno con senape e miele con contorno di carote e sedano rapa in agrodolce

(per due persone)
3 wurstel agricoli (per me #Guster Agrisalumeria Luiset)
40 g di cipolla
1 rametto di maggiorana
1 rametto di timo
30 g di miele di tiglio
30 g di senape granulosa
1 cucchiaio di senape cremosa
1 goccino d’acqua 
100 g carota
80 g sedano rapa pesato già pulito
1 cucchiaino di zucchero di canna
1 cucchiaio di aceto
olio extravergine d’oliva
sale
pepe

Preparare le verdure, lavando e sbucciando la carota e tagliandola a nastri con il pelapatate, e pulendo il sedano rapa e tagliandolo a julienne.
Affettare la cipolla e metterla in padella con due cucchiai d’olio. Lasciarla rosolare per qualche istante senza farla scurire, poi scolarla e metterla da parte. Nell’olio aggiungere il sedano rapa, lasciarlo insaporire per un paio di minuti e poi sfumare con un goccino d’acqua. Quando l’acqua è evaporata aggiungere in padella anche le carote e ripetere il procedimento. Lasciar cuocere per 7-8 minuti. Poi regolare di sale e pepe, aggiungere lo zucchero di canna, mescolando, e sfumare con un cucchiaio d’aceto. Quando le verdure saranno di nuovo asciutte spegnere il fuoco.
Preparare l’emulsione mescolando in una ciotola le cipolle messe da parte in precedenza, il miele, la senape granulosa e quella cremosa, le erbette aromatiche diraspate.Allungare con un cucchiaino d’acqua e mettere in questo composto i wurstel tagliati a pezzi grossi. Amalgamare bene e poi trasferire il tutto in una pirofila da forno: deve essere abbastanza piccola, in modo che il tutto resti vicino e non si asciughi troppo. Infornare a 190° per 5 minuti.
Scaldare per qualche istante le verdure prima di servire assieme.
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Sta per partire l’Abbecedario Culinario Mondiale!

C’è una parola che va tanto di moda ed è “virale”. Qualcosa diventa virale perché tutti lo vogliono, tutti lo conoscono, tutti ne parlano… Ecco, l’abbecedario culinario d’Europa non è diventato virale, però rileggendo il suo post di apertura del Gennaio 2013, si parlava di 16 blog che a blog unificati annunciavano il viaggio (virtuale) culinario europeo, e quest’anno? Quest’anno abbiamo un calendario già pronto, abbiamo un gruppo di 29 blogger che compongono la nostra carovana, tra ambasciatrici, ambasciatore, “semplici” viaggiatrici e un’Aiuolik. 
Ebbene signori, noi siamo pronti e siamo lieti di annunciarvi:

L’ABBECEDARIO CULINARIO MONDIALE
Avete capito bene, questa volta giriamo (virtualmente) il mondo e lo mettiamo sul piatto, letterina per letterina!

Anche questo viaggio consta di un ambasciatore/ambasciatrice per ogni letterina e anche quest’anno ci aspettiamo che siate in tanti a viaggiare con noi, che sia per una tappa o per tutto il viaggio o ogni volta che avete il trolley pronto e vi volete aggiungere.
Questa volta però ogni lettera è associata a una città, rappresentativa di una nazione e l’ambasciatore/ambasciatrice ha l’onore di aprire le danze con un piatto tipico a sua scelta. In seguito, tutti gli altri partecipanti/viaggiatori possono pubblicare una ricetta tipica di quel luogo. Semplice, no?

Più brevemente, se volete partecipare ricordatevi la regola delle 4W:

  1. WHEN: ogni 3 settimane esce una lettera; 
  2. WHAT: potete pubblicare una qualsiasi ricetta (o anche più di una) della nazione rappresentata da quella lettera (la ricetta può iniziare con qualsiasi lettera!); 
  3. WHERE: la ricetta la pubblicate nel vostro blog e poi lasciate il link al blog ospite come commento al suo post di apertura; 
  4. WHO: chiunque abbia un blog può partecipare, più siamo e più ci divertiamo quindi sarebbe fantastico fare più tappe possibili tutti assieme, ma potete partecipare anche solo per una lettera, anche una lettera sì e una no, anche solo i mesi dispari! 

Il post deve includere un riferimento all’evento e al blog ospitante, mentre l’utilizzo del logo dell’evento (ovvero l’immagine che vedete un po’ più su) è facoltativo (ma gradito). Potete anche utilizzare ricette dal vostro archivio: basta aggiungere il riferimento all’evento e procedere come sopra.

Se è tutto chiaro, ecco quindi il calendario, non fatevi spaventare dalle date, il viaggio sarà piacevolissimo in nostra compagnia!

Viaggiare con noi è gratis, si apprendono tante cose e troverai sempre un sorriso, che aspetti a preparare il trolley anche tu?

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Soupe aux oignons – Zuppa di cipolle alla francese

Ci troviamo in Auvergne, regione della Francia situata proprio al centro del Massif Central. Qui convivono due lingue quella del resto del paese, e quella d’oc, retaggio dell’antichità, secondo cui la regione è ancora oggi chiamata Auvèrnha. La regione nasce con gli Arverni, tribù gallica da cui prende il nome. Gli Arverni a loro volta sono noti per il loro comandante supremo, un giovanotto di nome Vercingetorige, al quale si deve l’unificazione della tribù celtiche dell’antica Gallia e una sconfitta clamorosa ai danni di Giulio Cesare a Bibracte.
L’iconografia ufficiale ce lo presenta come un gigante baffuto, una specie di Hulk Hogan dei tempi andati, e in effetti i Galli apparivano ai Romani come giganti, biondi e pelosi. In realtà il giovane Vercingetorige, era definito adulescens, ovvero uomo sotto i trent’anni secondo il diritto romano, nei Commentarii de bello Gallico di Giulio Cesare, nel VII capitolo, quasi interamente dedicato a lui. Attorno al 58 a.C., quando Cesare già combatteva in Gallia e scriveva il suo De Bello Gallico, Vercingetorige era un ragazzo sui vent’anni, di nobili natali, figlio del re Celtillo, e molto probabilmente all’interno dell’entourage militare di Giulio Cesare che gli fece indirettamente da maestro sulle tecniche di guerra dei romani, in
cambio della sua collaborazione e della sua conoscenza del territorio e
delle usanze della Gallia. Dal 58 al 53 si svolse una lunga campagna di guerra, durante la quale molte tribù celtiche vennero debellate o ridotte all’obbedienza, facendo degli Arverni il cuore della resistenza, in un territorio molto ricco di risorse ed evoluto economicamente. Mentre Cesare tornava per un periodo verso la Gallia Cisalpina, nell’inverno del 53, Vercingetorige, si mosse per creare una resistenza all’ulteriore avanzata romanaverso ovest.
« Allo stesso modo Vercingetorige, figlio di Celtillo, Arverno,
giovane influentissimo, il cui padre era stato l’uomo più autorevole
della Gallia e, aspirando al regno, era stato giustiziato dai suoi
compatrioti, convoca i suoi clienti e senza fatica li infiamma. »
Il racconto di Cesare non è totalmente obiettivo e fa apparire la resistenza arverna, capeggiata da Vercingetorige, qualcosa di molto simile ad una congiura, con un capo che raccatta i suoi sostenitori tra i diseredati delle campagne già battute dalla falce romana. Il capo degli Arverni invece riesce effettivamente ad unificare sotto di sé le tribù galliche, pur con l’uso della forza, prendendo in ostaggio i figli dei capi tribù per assicurarsi la fedeltà di questi ultimi. Forma quindi sotto di sè un clan potente che gli giustifica il nome che significa “il grandissimo re dei guerrieri”. 
Nel 52 egli impegna i romani in una sfiancante guerra d’inseguimento, facendo terra bruciata dietro di sé e mettendo in atto tutte le tecniche di guerra imparate dai romani.
Dopo alcune fasi molto favorevoli al capo dei galli, la fortuna volge alla fine verso Cesare. Con l’assedio di Alesia, Vercingetorige venne costretto alla resa e venne portato in catene a Roma per poi essere ucciso.
Il suo mito scomparve per risorgere solo nell’800, come simbolo nazionalista francese.
L’Alvernia è famosa non solo per il mito di Vercingetorige, ma anche per i suoi paesaggi, vulcani e sorgenti, e le sue industrie, Michelin e Danone, solo per fare due nomi, hanno in zona alcuni importanti stabilimenti, ma anche, dal punto di vista gastronomico alcuni dei formaggi più importanti della Francia: sono quattro le denominazioni DOP: Cantal, Bleu d’Auvergne, Fourme d’Ambert, Saint-Nectaire.
Contesa invece tra i pastori d’Alvernia e il celebre Nicolas Appert è la zuppa di cipolle. La leggenda vuole che il particolare metodo di cottura che fa caramellare le cipolle sia stato inventato proprio da Appert. Si narra che il duca di Lorena, in viaggio verso Parigi per far visita alla figlia Maria, sposa di Luigi XV, si imbatté in questa superba zuppa e si rifiutò di proseguire se non ne avesse prima imparato il segreto.
Altri raccontano che questo piatto fosse diffuso in Alvernia da secoli, tra i pastori che la preparavano con i pochissimi ingredienti: burro, cipolle, pane e formaggio. Il segreto è la dolce cottura delle cipolle che caramellano quasi senza aggiunta di zuccheri.

 La ricetta: Soupe aux oignons – Zuppa di cipolle alla francese
500 g di cipolle dorate
60 g di burro
1 cucchiaio di zucchero di canna
1 cucchiaio di farina 00 
1,5 l di brodo vegetale
100 ml di vino bianco
timo
lauro
180 g di Gruyère
sale 
pepe
1 baguette 

Preparare il brodo vegetale.
Nel frattempo tagliare finemente le cipolle. prendere una padella ampia e sciogliervi il burro, aggiungendo poi le cipolle. Iniziare la cottura a fuoco vivace, poi abbassare e far dorare le cipolle lentamente. Se faticano a colorare e caramellare aggiungere lo zucchero e qualche cucchiaio d’acqua. Quando sono ben colorate, sfumare con il vino bianco ed aggiungere poi la farina, mescolando bene. Aggiungere il brodo e poi regolare di sale e pepe, aggiungendo anche le erbe aromatiche. Far proseguire la cottura a fuoco molto basso, senza far evaporare troppo liquido e coprendo all’occorrenza.
Grattugiare il formaggio e tostare il pane.
Dopo 40 minuti di cottura la zuppa è pronta. Mettere sul fondo di cocotte adatte al forno un crostino di pane. Cospargerli di formaggio e coprirli con la zuppa. Completare con due crostini di pane e abbondante formaggio grattugiato. Infornare subito sotto il grill finchè il formaggio non è dorato. Servire subito.
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Concorsi a base di Like? No grazie!

Oggi, 15 settembre 2014, è stata organizzata una protesta contro quei
concorsi in cui i vincitori non sono scelti da una giuria di professionisti e specialisti del settore, ma sono
decretati dai “Mi piace” su Facebook. 
Cosa accade in questi casi? Che il diretto interessato martelli di messaggi e tag gli amici e i conoscenti, per farsi assegnare il fatidico like, e chi vince non è il più bravo ma quello che ha più contatti o più faccia tosta nell’insistere con le richieste. 
Altre volte, ancora peggio, i likes sono il risultato di scambi tra bloggers che per vincere a tutti i costi, aderiscono a gruppi di scambio di like.
Se aderisci alla protesta, condividi questo
post.
Perché siamo contrari ai concorsi a base di like?
– perché non premiano la bravura e la competenza;
– perché rappresentano per eccellenza l’anti-meritocrazia;
– perché sono la versione facebookiana delle lobby, del nepotismo, delle baronie;
– perché danneggiano anche l’azienda che vi si affida (che finisce per fare spam e non pubblicità).
 
Molto meglio una sana e golosa competizione a suon di mestoli, pentole e
assaggi visivi, ma soprattutto… che vinca DAVVERO il migliore!
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Focaccione sofficissimo per la colazione, con la Selezione di Stagione Simply

La ricetta di oggi si accompagna ad una iniziativa dei supermercati Simply. A partire dal 27 giugno e fino alla fine del 2014, sono disponibili in giorni prestabiliti, nel caso del mio supermercato di fiducia, il venerdì e il sabato, delle cassettine di frutta oppure di verdura contenenti esclusivamente prodotti di stagione a 0,79 € al Kg. Sono andata anch’io a provare questa selezione. Ecco la cassettina di frutta che ho scelto:

Uva, pesche bianche, mele e susine. Già pesate e pronte da portare a casa.
L’iniziativa è nata per promuovere il consumo della frutta e della verdura di stagione anche a chi si rifornisce al supermercato e non ha il tempo di andare dal fruttivendolo di fiducia. D’altronde con molti prodotti che ormai si trovano tutto l’anno, per i “non foodbloggers” c’è ancora un po’ di confusione…
Con questa cassettina di frutta ho elaborato una ricetta. Le pesche bianche me l’ero già mangiate e quindi ho pensato di preparare qualcosa per la colazione di settembre. Una focaccia che ricordasse un po’ la toscana schiacciata coll’uva, che si fa con le uve da vino, e un po’ la focaccia dolce di Susa, ricca di zucchero croccante in superficie.
Dalla Selezione di stagione Simply ho preso l’uva bianca e le susine che si prestano perfettamente a questo tipo di preparazione e alla cottura che ho adottato. Ho aggiunto solo una manciata di mirtilli freschi.
La focaccia è davvero perfetta per la colazione, dolce ma non troppo e con tanta frutta. Io l’ho tagliata a spicchi e surgelata: è sufficiente passarla in frigo la sera e scaldarla per 3 minuti in forno prima di gustarla al mattino, con il té, il caffelatte o una bella tazza di yogurt greco.
E naturalmente è personalizzabile con altra frutta di stagione!

La ricetta: Focaccione sofficissimo con frutta di stagione
per ogni focaccione di tot cm di diametro:
5 o 6 susine sode (Selezione di stagione Simply)
1 grappoletto di uva (Selezione di stagione Simply)
1 pugnetto di mirtilli freschi
280 g di farina tipo 0
5 g di lievito di birra fresco
100 g di acqua
80 g di zucchero
1 uovo grande (+ un po’ d’albume per la glassatura)
2-3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva
q.b zucchero di canna scuro

In una terrina sciogliere il lievito in 50 g di acqua ed impastarlo con 50 g di farina. Lasciar riposare questo lievitino per un paio d’ore, finchè non è bello gonfio.
A questo punto aggiungere la restante farina e lo zucchero con altri 50 g di acqua e formare un impasto. Aggiungervi l’uovo e farlo assorbire, continuando a rigirare l’impasto finchè non è più appiccicoso. Per ultimo aggiungere due cucchiai di olio extravergine di oliva.
Lasciar riposare l’impasto al tiepido fino al raddoppio. 
Ungere una teglia (la mia era da crostata) e porvi l’impasto, allargandolo con delicatezza. Dopo mezz’ora o poco più sarà bello gonfio e pronto da decorare. Disporre in ordine le susine tagliate a metà, i chicchi d’uva e i mirtilli, spennellare con bianco d’uovo e spolverare in superficie con zucchero di canna.
Scaldare il forno a 180° ed infornare per circa 20-25 minuti.

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Il peperone nel raviolo e la 65° Sagra del Peperone di Carmagnola

Oggi vi parlo di peperoni e della Sagra del Peperone che si svolge a due passi da Torino, a Carmagnola dal 29 agosto al 7 settembre e che è giunta ormai alla 65° edizione.

Il 30 agosto, grazie all’invito del Comune di Carmagnola, sono stata lì, tutta la giornata, con Turismo Torino, per conoscere un po’ di più la città, alcuni dei suoi produttori e la sua Sagra, una vera e propria istituzione per il territorio. Nel frattempo avevo già fatto il pieno di peperoni, meraviglioso frutto estivo, che insieme alla melanzana mi fa proprio impazzire e la settimana passata ho condiviso sulla mia pagina Facebook le vecchie ricette a base di peperoni.
Un capitolo tutto suo lo merita il Povron ëd Carmagnòla, il peperone di Carmagnola, prodotto in moltissimi comuni della provincia di Torino e in alcuni della Provincia di Cuneo.
Le varietà sono 4 e i loro suggestivi nomi in piemontese sono: il Bragheis, quadrato, il Long, ovvero il famoso Corno di Bue, presidio Slow Food, il Trottola, conosciuto anche come peperone Cuneo ed infine il Tomaticòt.

peperone quadrato di Carmagnola
Il peperone è giunto a Carmagnola nei primi anni del ‘900, e quindi in epoca relativamente recente, introdotto un orticoltore di Borgo Salsasio, ma qui ha trovato un microclima ideale. Era una pianta piuttosto giovane per l’Europa, avendo preso piede come ortaggio commestibile soltanto nell’800. In precedenza, dopo la scoperta dell’America era sì, conosciuto – Leonardo da Vinci, ad esempio estraeva dal peperone alcuni pigmenti per i suoi dipinti – ma apprezzato soltanto come pianta ornamentale. Questo non stupisce se si pensa ai suoi grandi frutti, colorati e gonfi come palloni.

Il tour di sabato, però, non era dedicato soltanto al peperone ma anche al territorio carmagnolese, ricco di spunti di ogni genere, e la Sagra può fungere da pretesto per una visita più approfondita alla scoperta dei suoi tesori. 
Parliamo intanto dell’Abbazia di Casanova, antica abbazia cistercense risalente nel suo impianto originario al XII secolo, situata lungo una delle vie francigene, che conobbe uno sviluppo ininterrotto fino al XVI secolo quando venne ceduta ai Savoia. Distrutta quasi completamente da un rovinoso incendio, la facciata attuale è in stile tardo barocco piemontese, mentre il resto del monastero e l’interno della chiesa si devono all’intervento di Giovanni Tommaso Prunotto, allievo di Juvarra, nella metà del secolo XVIII. All’interno perfettamente conservati stucchi di pregio e alcuni arredi, e gli affreschi del Guidobono e di Crivelli, mentre è da segnalare una Madonna con bambino del ‘400.

Menzione d’onore all’Ecomuseo della Canapa, in Borgo San Bernardo, per me un vero tesoro. L’Ecomuseo preserva la memoria storica di un territorio in cui le aziende a conduzione familiare che si dedicavano alla produzione di corde erano più di 800 nel XIX secolo. La signora Caterina, con chiarezza e passione, ci ha accompagnato nella scoperta della pianta della canapa, mostrandoci come veniva ricavata la fibra e come venivano poi prodotte le corde. La pianta di canapa veniva lasciata macerare e poi la fibra veniva separata dalla parte più legnosa. La fibra veniva “filata” con l’aiuto di un macchinario, anche se gran parte del lavoro era svolto a livello manuale, e con qualsiasi condizione atomosferica, spesso all’aperto, vista la necessità di un’area di lavoro “lunga”.

I fili ottenuti venivano poi intrecciati grazie all’utilizzo di una sorta di argano e a una spoletta. La spoletta, a seconda della corda che si voleva ottenere variava di dimensione e di scanalature.
La corda veniva poi bagnata e ripassata con una maglia di ferro che la rendeva liscia.

Il territorio carmagnolese ha rifornito di cordami la marina italiana per secoli, ma esisteva un tipo di corda per ogni uso e le lavorazioni erano molte.

Il giro nel centro storico mi ha piacevolmente stupito, gli scorci da scoprire sono davvero tanti. Ma l’orgoglio dei Carmagnolesi, assieme alla chiesa Collegiata dei Santi Pietro e Paolo, è l’interno di Casa Cavassa, con i soffitti a cassettoni tra i più belli della provincia torinese.
Peccato non aver potuto visitare la Sinagoga barocca, tra le più belle d’Italia, segno della presenza a Carmagnola di una fiorente comunità che sfiorava, prima dell’emancipazione del 1848, circa le 200 unità.

Non si poteva organizzare un tour a Carmagnola senza dare un esempio dei produttori gastronomici di eccellenza che con passione danno lustro alla città.
I produttori di peperoni, ovviamente; uno fra tutti La Ca Veja, azienda agricola e agriturismo dove abbiamo anche pranzato a base di peperone di Carmagnola, passando per il porro dolce lungo e per il coniglio grigio, tutte eccellenze del territorio.



Una nota va all’entusiasmo contagioso della signora Chiara di C’era una volta una ricetta, che produce nel suo laboratorio artigianale deliziose conserve a base di prodotti dell’orto, con un occhio alla tradizione e l’altro alla sperimentazione. Recentemente è stata aggiunta anche una linea di pasticceria secca. I colori e i profumi delle sue conserve mi hanno letteralmente conquistata e meritano sicuramente una seconda visita.

Nel centro di Carmagnola si trova, invece, la Pasticceria Di Claudio, dove sono nati il peperone candito e la torta al peperone, oggi presenti in fiera. Anche in questo caso è il sorriso contagioso del titolare a conquistarci, assieme agli infiniti assaggi di tutti i prodotti e alle sue esaurienti spiegazioni: ci dice “diffidate di coloro che dopo tanti anni di lavoro in pasticceria si dicono nauseati dalla dolcezza; vuol dire che non stanno più lavorando con passione“. Anche per noi blogger è così! 😉

Ultimo ma non ultimo, il Carmagnolotto, l’agnolotto tipico di Carmagnola. Presentatomi in anteprima da carmagnolesi DOC, doveva contenere la carne delle vacche anziane e non più produttive, le giore, insieme al porro lungo dolce di Carmagnola, e doveva essere servito nello stesso brodo di carne di vacca o direttamente, nudo, sul tovagliolo. A La Ca’ Veja abbiamo trovato una versione di magro, con la sfoglia di farina di canapa e il ripieno di ricotta di bufala e peperone.
Allora, qual è il vero Carmagnolotto?
Visto che, come al solito, non mi fermo alla prima notizia, ho voluto approfondire: quello di magro è il Carmagnolotto edission limità” nato proprio per venire incontro ai vegetariani e per essere meglio apprezzato durante i giorni ancora caldi della Sagra, mentre dall’autunno potrete gustare nuovamente quello classico di carne.

Sfoglia di canapa a parte, assomiglia al mio raviolo ai peperoni, sperimentato un paio di settimane fa e riproposto in due cene diverse, visto il suo successo.
Un gusto decisamente esplosivo, visto che i peperoni all’interno del ripieno li ho messi a pezzettini, ben rosolati in aglio e acciughe, dopo esser stati passati in forno per eliminare ogni traccia di buccia e renderli digeribilissimi.
Io li ho conditi con un sughetto leggero di pomodorini freschi. Ne rifarò altri, per congelarli, nelle prossime settimane, per gustarli anche in inverno!

La ricetta: Ravioli ai peperoni, con sughetto di pomodorini e cubetti di Macagn

per la sfoglia:
200 g di semola rimacinata di grano duro
125 g di acqua tiepida
1 pizzico di sale

per il ripieno:
200 g di ricotta vaccina asciutta
2 peperoni grandi
2/3 filetti di acciuga
1 grosso spicchio d’aglio
qualche foglia di prezzemolo
olio
sale

Per il ripieno:
Arrostire i peperoni in forno a 200° per 35-40 minuti. Estrarli dal forno e riporli in un sacchetto di plastica per alimenti e chiuderlo bene fino a completo raffreddamento. Poi liberare i peperoni da semi e bucce e tagliarli a quadrettini di un cm di lato.
In una padella, rosolare in due cucchiai d’olio lo spicchio d’aglio appena schiacciato. Abbassare la fiamma e sciogliere i filetti di acciuga, poi aggiungere i peperoni e farli insaporire per qualche minuto, regolando di sale. Aggiungere anche alcune foglie di prezzemolo tagliuzzate fini.

Per la sfoglia, impastare farina e acqua con il pizzico di sale fino ad ottenere una pasta liscia e morbida. Lasciarla riposare sulla spianatoia infarinata, coperta da una ciotola, per circa mezz’ora.

Stendere la sfoglia molto sottile, e formare i ravioli della forma che preferite, con all’interno un cucchiaino di ripieno: questa volta ho usato questo forma-ravioli, badando di inumidire i bordi prima di chiudere il raviolo.

Lessare i ravioli in abbondante acqua salata prima di condirli con il sugo che preferite.
Io ho fatto un sughetto veloce con uno spicchio d’aglio e pomodorini maturi, insaporito da un rametto di maggiorana e arricchito da cubetti di Macagn*.

*il Macagn (o Maccagno) è un formaggio piemontese d’alpeggio, DOP e Presidio Slow Food

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La Galleria del Sapore Cirio e una ricetta legata al ricordo di casa

Vi racconto una bella storia, di quelle che piacciono a me.

Francesco Cirio, nato a Nizza Monferrato da un padre commerciante di granaglie, fin dalla più tenera età ebbe uno spirito imprenditoriale non da poco: ragazzino di undici anni andava a piedi al mercato di Nizza Monferrato, riempiva la sua cesta di ortaggi e andava a rivenderli a Fontanile, dove abitava, consegnandoli porta a porta.


Trasferitosi a Torino, qualche anno più tardi, assieme al fratello Ludovico, e con un lavoro di scaricatore di vagoni ferroviari, acquistava frutta e verdura a Porta Palazzo all’orario di chiusura e a prezzi ragionevoli per andare a rivenderla nelle borgate periferiche che avevano pù difficoltoso accesso al mercato ortofrutticolo.

L’attività dovette rendergli tanto che in poco tempo riuscì ad acquistare un carretto per ampliare il giro di consegne, mentre si arrovellava su come portare verso la stagione fredda i frutti dell’estate.


Il metodo era stato inventato in realtà da Nicolas Appert nel 1795 e presentato al pubblico nel 1810: i più svariati cibi venivano messi in bottiglie di vetro, sigillati e poi tenuti in acqua bollente finchè non erano cotti: questo garantiva una lunga conservazione del prodotto.
Nel 1856 Cirio prese in affitto un locale in via Borgo Dora 34, a Torino, dove fece installare le caldaie per le lavorazioni: cominciò con la sperimentazioni, prima i piselli, seguiti da altre lavorazioni, fino ad arrivare al pomodoro, che fece la sua fortuna.

All’Esposizione Universale di Parigi del 1867 il marchio era già affermato; ne conseguì l’apertura di altri stabilimenti in tutta Europa: a Castellammare di Stabia, Milano, Parigi, Vienna, Berlino, Londra, Bruxelles e Belgrado, mentre le merci già viaggiavano su vagoni ferroviari verdi bianchi e rossi a tariffe agevolate grazie all’apposita legge Cirio varata dal ministro DePretis.


Nel frattempo fioccano le storie sul suo piglio imprenditoriale. Si
racconta che saputo dell’opportunità di vendere dei cavolfiori a
Berlino, ne mandò un cospicuo rifornimento; avvisato del’invenduto si
mosse personalmente con un carico di burro e vino, comunicando che a
chiunque avesse acquistato i cavolfiori italiani sarebbe stato fornito
burro per condirli e vino per annaffiarli, con il risultato di fare in
poche ore il tutto esaurito. 

Francesco Cirio, come i grandi imprenditori alla ricerca di sempre nuove occasioni, aprì un negozio e un albergo a Torino, divenne esportatore di uova, coltivatore di tabacco, imprenditore agricolo, senza mai fermarsi, ma purtroppo alcune operazioni sbagliate portarono a un tracollo del patrimonio poco prima della sua morte.
Nello stesso anno, nel 1900 nasce la «Cirio società generale conserve alimentari», con gli
stabilimenti di punta in Campania a San Giovanni
a Teduccio di Napoli, e Pontecagnano, in provincia di
Salerno.


Il 25 giugno Cirio è tornata a Torino, proprio dove tutto è cominciato, per giocare con il mondo delle foodbloggers e dell’arte, nella cornice d’eccezione della sede della Città del Gusto del Gambero Rosso.
L’artista è 9periodico, giovane emergente romano, che ha ideato per Cirio una serie di tele naif piene di colore.
Le foodbloggers, 16 e scatenate, eccole qua! Riuscite a riconoscermi?

Siamo state testimoni di questo momento di arte producendo noi stesse arte in cucina, mentre 9periodico si dava da fare con fogli e pennelli…

Ecco… le sabaude, contattate da Mariachiara Montera e pronte a tutto, hanno davvero dato il meglio di sé sui social anche prima dell’evento. La sera della sfida, invece, concentrazione assoluta (unita a tante risate, a dire il vero) per tutta la durata della gara! 😀

Ad ogni foodbloggers è stata assegnata una scatola del mistero, in modo casuale, con un ingrediente misterioso e una spezia o un semino da abbinare. Dopo il giro in dispensa per prendere qualche altro ingrediente, ognuna di noi si è messa all’opera per preparare il proprio piatto.

Sono stata fortunata: mi è capitata la ricotta, ingrediente versatile e perfettamente nelle mie corde. L’idea di farne polpettine mi è venuta all’istante, le polpette di ricotta fanno parte della tradizione di famiglia da tempo – le faceva mia nonna, belle grosse, e mio nonno le chiamava bombe, e mia madre le ha sempre fatte in casa, con  il sugo di pomodoro con la cipolla e di solito del prezzemolo nell’impasto.
Io ho usato la maggiorana per insaporire e i semini di papavero presenti nella mistery box per aggiungere un tocco di croccantezza.

Grazie a questa felice intuizione e ad un po’ di fortuna ho anche rimediato una felicissima vittoria, colpendo in qualche modo, con il sapore e la semplicità di questo piatto lo chef giudice della gara Luca Ogliotti.

[Le foto della serata sono di Davide Bellucca.]


Ed ecco la mia ricetta per la Galleria del Sapore Cirio: Il cerchio di Giotto, ovvero polpettine di ricotta con i semini di papavero e un sugo tondo tondo con La Polpa Più Cirio.

(ingredienti per 4 porzioni)

per il sugo:
1 lattina di Polpa Più Cirio
1 cipolla piccola
1 rametto di maggiorana
olio extravergine
sale
peperoncino

per le polpettine:
500 g di ricotta vaccina o di pecora
100 g di pecorino grattugiato
100 g di pangrattato
2 cucchiai di semini di papavero
2 uova
sale
maggiorana

In una padella capiente, versare due cucchiai d’olio e rosolarvi la cipolla tritata per qualche minuto, poi aggiungere la Polpa Più Cirio e fare cuocere per circa un quarto d’ora a fuoco lento, senza far addensare, aggiungendo all’occorrenza un po’ d’acqua. Regolare di sale ed aggiungere un rametto di maggiorana e mezzo peperoncino per insaporire.
Nel frattempo schiacciare la ricotta con la forchetta, aggiungere il pecorino, i semini di papavero e un cucchiaino di maggiorana tritata, creando un composto omogeneo; regolare di sale, poi aggiungere le uova leggermente sbattute e il pangrattato; aggiungerne un po’ se il composto risulta troppo morbido. Formare delle palline grosse come una noce e poi metterle a cuocere nel sugo di pomodoro, coprendo la padella con un coperchio. Ogni tanto far rigirare il contenuto della padella per far cuocere uniformemente le polpettine. Dopo un quarto’ora circa saranno pronte.
Prelevare con un cucchiaio un po’ di sugo e deporlo sul fondo dei piatti. Adagiarvi sopra le polpettine e decorarle con foglioline o fiorellini di maggiorana fresca.

 
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