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Soupe aux oignons – Zuppa di cipolle alla francese

Ci troviamo in Auvergne, regione della Francia situata proprio al centro del Massif Central. Qui convivono due lingue quella del resto del paese, e quella d’oc, retaggio dell’antichità, secondo cui la regione è ancora oggi chiamata Auvèrnha. La regione nasce con gli Arverni, tribù gallica da cui prende il nome. Gli Arverni a loro volta sono noti per il loro comandante supremo, un giovanotto di nome Vercingetorige, al quale si deve l’unificazione della tribù celtiche dell’antica Gallia e una sconfitta clamorosa ai danni di Giulio Cesare a Bibracte.
L’iconografia ufficiale ce lo presenta come un gigante baffuto, una specie di Hulk Hogan dei tempi andati, e in effetti i Galli apparivano ai Romani come giganti, biondi e pelosi. In realtà il giovane Vercingetorige, era definito adulescens, ovvero uomo sotto i trent’anni secondo il diritto romano, nei Commentarii de bello Gallico di Giulio Cesare, nel VII capitolo, quasi interamente dedicato a lui. Attorno al 58 a.C., quando Cesare già combatteva in Gallia e scriveva il suo De Bello Gallico, Vercingetorige era un ragazzo sui vent’anni, di nobili natali, figlio del re Celtillo, e molto probabilmente all’interno dell’entourage militare di Giulio Cesare che gli fece indirettamente da maestro sulle tecniche di guerra dei romani, in
cambio della sua collaborazione e della sua conoscenza del territorio e
delle usanze della Gallia. Dal 58 al 53 si svolse una lunga campagna di guerra, durante la quale molte tribù celtiche vennero debellate o ridotte all’obbedienza, facendo degli Arverni il cuore della resistenza, in un territorio molto ricco di risorse ed evoluto economicamente. Mentre Cesare tornava per un periodo verso la Gallia Cisalpina, nell’inverno del 53, Vercingetorige, si mosse per creare una resistenza all’ulteriore avanzata romanaverso ovest.
« Allo stesso modo Vercingetorige, figlio di Celtillo, Arverno,
giovane influentissimo, il cui padre era stato l’uomo più autorevole
della Gallia e, aspirando al regno, era stato giustiziato dai suoi
compatrioti, convoca i suoi clienti e senza fatica li infiamma. »
Il racconto di Cesare non è totalmente obiettivo e fa apparire la resistenza arverna, capeggiata da Vercingetorige, qualcosa di molto simile ad una congiura, con un capo che raccatta i suoi sostenitori tra i diseredati delle campagne già battute dalla falce romana. Il capo degli Arverni invece riesce effettivamente ad unificare sotto di sé le tribù galliche, pur con l’uso della forza, prendendo in ostaggio i figli dei capi tribù per assicurarsi la fedeltà di questi ultimi. Forma quindi sotto di sè un clan potente che gli giustifica il nome che significa “il grandissimo re dei guerrieri”. 
Nel 52 egli impegna i romani in una sfiancante guerra d’inseguimento, facendo terra bruciata dietro di sé e mettendo in atto tutte le tecniche di guerra imparate dai romani.
Dopo alcune fasi molto favorevoli al capo dei galli, la fortuna volge alla fine verso Cesare. Con l’assedio di Alesia, Vercingetorige venne costretto alla resa e venne portato in catene a Roma per poi essere ucciso.
Il suo mito scomparve per risorgere solo nell’800, come simbolo nazionalista francese.
L’Alvernia è famosa non solo per il mito di Vercingetorige, ma anche per i suoi paesaggi, vulcani e sorgenti, e le sue industrie, Michelin e Danone, solo per fare due nomi, hanno in zona alcuni importanti stabilimenti, ma anche, dal punto di vista gastronomico alcuni dei formaggi più importanti della Francia: sono quattro le denominazioni DOP: Cantal, Bleu d’Auvergne, Fourme d’Ambert, Saint-Nectaire.
Contesa invece tra i pastori d’Alvernia e il celebre Nicolas Appert è la zuppa di cipolle. La leggenda vuole che il particolare metodo di cottura che fa caramellare le cipolle sia stato inventato proprio da Appert. Si narra che il duca di Lorena, in viaggio verso Parigi per far visita alla figlia Maria, sposa di Luigi XV, si imbatté in questa superba zuppa e si rifiutò di proseguire se non ne avesse prima imparato il segreto.
Altri raccontano che questo piatto fosse diffuso in Alvernia da secoli, tra i pastori che la preparavano con i pochissimi ingredienti: burro, cipolle, pane e formaggio. Il segreto è la dolce cottura delle cipolle che caramellano quasi senza aggiunta di zuccheri.

 La ricetta: Soupe aux oignons – Zuppa di cipolle alla francese
500 g di cipolle dorate
60 g di burro
1 cucchiaio di zucchero di canna
1 cucchiaio di farina 00 
1,5 l di brodo vegetale
100 ml di vino bianco
timo
lauro
180 g di Gruyère
sale 
pepe
1 baguette 

Preparare il brodo vegetale.
Nel frattempo tagliare finemente le cipolle. prendere una padella ampia e sciogliervi il burro, aggiungendo poi le cipolle. Iniziare la cottura a fuoco vivace, poi abbassare e far dorare le cipolle lentamente. Se faticano a colorare e caramellare aggiungere lo zucchero e qualche cucchiaio d’acqua. Quando sono ben colorate, sfumare con il vino bianco ed aggiungere poi la farina, mescolando bene. Aggiungere il brodo e poi regolare di sale e pepe, aggiungendo anche le erbe aromatiche. Far proseguire la cottura a fuoco molto basso, senza far evaporare troppo liquido e coprendo all’occorrenza.
Grattugiare il formaggio e tostare il pane.
Dopo 40 minuti di cottura la zuppa è pronta. Mettere sul fondo di cocotte adatte al forno un crostino di pane. Cospargerli di formaggio e coprirli con la zuppa. Completare con due crostini di pane e abbondante formaggio grattugiato. Infornare subito sotto il grill finchè il formaggio non è dorato. Servire subito.
ai fornelli, al cucchiaio, dolci, ricette tradizionali

Oeuf à la neige per il Calendario Culinario La France à Table

Mentre tutte le foodblogger serie – quelle che ad agosto si stendono in spiaggia, italiana o straniera che sia – si prendono una pausa dal blog e dalla rete, io torno alla carica.
Io ad agosto resto a Torino e qualche giorno lontano dal blog me lo sono già fatto.
Quindi, o golosi cronici, voi che non siete in alcun modo scoraggiati o redarguiti dal caldo imperante (che ora arriva, oh, sì che arriva, è già qui!), ecco che troverete me ad allettarvi, incurante della canicola estiva, perchè ecco, sì… insomma… caldo o non caldo, si deve pur mangiare!
Quindi lasciatele perdere per un mese, le super foodblogger, e fatevi un giro qui, che da leggere ce n’è sempre…pure troppo!
L’Ile de France è la regione in cui si trova Parigi. Il suo nome deriva da île, isola, perchè territorio delimitato dai fiumi Oise, Marne, Epte, Aisne, Yonne ed Eure e attraversato dalla Seine, che bagna anche Parigi. Un’altra interpretazione vuole che la denominazione derivi Liddle Franke in lingua franca, appunto, che significa Piccola Francia.
Alla resa dei conti è tutt’altro che “piccola”, se non per il suo territorio, visto che è la più ricca regione di Francia e il suo reddito procapite è del 70% più elevato del resto della media Europea.
 
Un territorio ricco quindi e fortemente turistico.
In primo piano, ancora una volta, i castelli. Fontainebleau, con un’architettura che attraversa epoche e stili e con i suoi 115 ettari di giardini;
foto da http://www.williamcurtisrolf.com
il castello di Saint-Germain-en-Laye, anche questo notevole per la costruzione in sé, ma ancor di più per le collezioni al suo interno: ospita infatti il Museo di Archeologia Nazionale, che fa fare un viaggio attraverso 30.000 oggetti archeologici dal Paleolitico alla Gallia Merovingia del VIII secolo; 
se invece pensate che le cose preistoriche siano troppo distanti dai vostri gusti, ecco il Castello d’Ecouen, al cui interno sono conservati arazzi, ceraniche, mobili, gioielli e oggetti di uso quotidiano, risalenti al Rinascimento. 
Restando in tema di castelli e palazzi, non si può dimenticare Versailles… anche se, da torinese, ci tengo a dire che al progetto della Venaria Reale cominciarono a lavorare due anni prima…
Per le foodbloggers a caccia di props, l’ideale è fare un salto a Saint-Ouen, dove si svolge un mercatino delle pulci davvero celebre, il tempio europeo dei mercanti di anticaglie.
Un accenno lo merita anche Auvers-sur-Oise dove vissero e lavorarono molti pittori impressionisti francesi, quali Cezanne, Pissarro, Corot, Daubigny e dove morì Vincent Van Gogh, sepolto proprio nel cimitero di Auvers.


La ricetta francese di questo mese è un dessert fresco che ci
siamo spazzolati il dicembre scorso, mentre finivo di fotografare per il
calendario, ma che è adattissimo per concludere una cena anche se fuori
ci sono 30 gradi. La crema inglese la potete preparare in anticipo,
anche la sera prima; le nuvole, un po’ meno in anticipo, due ore prima di portare in tavola,
velocissime da montare e immergere per pochi istanti nell’acqua bollente
e quindi via subito sulla crema inglese. 
Attenzione, però! Alcuni confondono l’ oeuf à la neige con l’île flottante, invece come spiega una francese DOC sul suo blog, le seconde si differenziano per la cottura del bianco d’uovo che nell’île flottante è meringa cotta a bagno maria in forno. Nell’oeuf à la neige la quenelle di meringa viene adagiata nell’acqua bollente e lì cuoce per pochissimi minuti.

La ricetta: Oeuf à la neige

Per la crema inglese:
400 ml di panna fresca da montare
300 ml di latte intero
135 g di zucchero
6 tuorli
1 bacca di vanigliaPer le oeuf à la neige:
4 albumi
70 g di zucchero
1 cucchiaino di fiori di lavanda

Portare a ebollizione il latte e la panna assieme ai semini e alla buccia della bacca di vaniglia. Quando bolle, spegnere il fuoco e lasciare ancora la bacca in infusione per un quarto d’ora. Sbattere i tuorli con lo zucchero finchè non diventano chiari  e spumosi. Versare un po’ di miscela di latte e panna, bollente sui tuorli, mescolare bene e poi aggiungere, gradualmente tutto il liquido, mescolando. Far cuocere poi, in una casseruola, a bagnomaria, finché la crema non nappa il cucchiaio. Con il termometro da cucina, dovrebbe arrivare a 85°C.
La crema a questo punto va raffreddata velocemente, perchè non impazzisca: metterla quindi in una piccola boule e porre questa boule in una più grande, preliminarmente riempita di cubetti di ghiaccio. Mescolare finchè la crema non raggiunge la temperatura ambiente. Rimettere nella crema la buccia di vaniglia e porre il contenitore in fresco per almeno 6 ore.

Un’ora o due ore prima di servire il dolce preparare le oeuf à neige, montando gli albumi finchè non schiariscono ed aggiungendo poi lo zucchero, continuando a montare. Quando la meringa è pronta, scaldare una pentola d’acqua a circa 85°C ed immergervi poi la meringa a cucchiaiate, formnado delle grosse quenelles. Devono cuocere circa 7 minuti. Poi giratele e proseguite la cottura per altri 3 minuti. Deponetele su un piatto o un canovaccio pulito fino al momento di servire.

La crema va posta in coppe o bicchieri larghi e capienti e completata con le nuvole di meringa e, come ho fatto io, con i fiori di lavanda (oppure più semplicemente con qualche scaglia di mandorla o granella di altra frutta secca).

 

 

 

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ai fornelli

La Pissaladière per il Calendario de La France à Table

Il mese scorso eravamo al confine con la Spagna, con la regione del Midi-Pyrénées, oggi siamo all’altro capo della Francia Meridionale, in Costa Azzurra.
In realtà la regione è davvero variegata perchè racchiude nel suo nome tre territori completamente diversi tra loro: Provence-Alpes-Côte d’Azur.
La regione è vicinissima all’Italia ed è quella più turisticamente conosciuta dagli italiani: Nizza fu nei secoli alleata di Pisa, poi la sua storia si intrecciò con quella del regno di savoia fino al 1860, quando venne ceduta ai francesi: un vero peccato visto che Giuseppe Garibaldi era proprio nato a Nizza. Le altre città celebri della zona sono Cannes, famosa per il festival e per lo showbiz che la popola e Saint Tropez, che a me evoca scenari da vecchi film anni ’60.
Abbandonando i paesaggi un po’ mondani della Costa Azzurra, si passa in Provenza; senza mai averla visitata, penso a sterminati campi di lavanda. In realtà la Provenza è molto altro: i resti romani così perfettamente conservati ad Arles, 

a Nimes,

Narbonne, e Marsiglia.
L’incanto della città dei papi, Avignone:

 

e la ricchezza della sua storia eccezionale.

Ma (occorre che lo dica?) è anche terra di ottima gastronomia. La fanno da padrone le erbe aromatiche, l’aglio l’olio come nella migliore cucina mediterranea e l’influsso proveniente dalle città di mare, porti da secoli, si fa sentire anche nell’interno. Forse non esiste cucina in Francia che si possa sentire più vicina alla nostra.

Il piatto di questo mese è una focaccia speciale, la pissaladière, che ha viaggiato lungo la costa fino alla vicina Liguria con il nome di Pizzalandrea. In realtà l’assonanza con la pizza è solo un’illusione: pissalat, peis salat in nizzardo, significa pesce sotto sale, in riferimento al condimento di questa focaccia, una sorta di pasta d’acciughe aromatizzata con aglio e timo che nella ricetta originale si spalmava sulla pasta, prima di ricoprirla con uno strato abbondante di cipolle, l’altro ingrediente principale, della qualità dorata.

Il nome di questo piatto viaggiando lungo la costa ligure si trasforma in pisciadela a Ventimiglia, figassa, una variazione della fugassa, a Taggia, pisciarà a Bordighera e con la variante, appunto di piscialandrea/pizzalandrea, in omaggio all’ammiraglio onegliese Andrea Doria che pare ne fosse grande estimatore. In alcuni casi, la ricetta subisce la variante dell’aggiunta di un po’ di salsa di pomodoro sotto le cipolle, mentre a Sanremo, caso unico, si trasforma in sardenaira, perchè vengono utilizzate le sardine al posto delle acciughe e si colora di parecchio pomodoro.

Tornando alla ricetta francese la pissaladière odierna è con un abbondante strato di cipolle stufate, che quindi fanno una seconda cottura in forno, sprigionando un profumo intenso, con olive nere e filetti di acciuga sotto sale. L’impasto di base è una comune pasta da pane, ma in alcune versioni più veloci  viene sostituita da pasta sfoglia o pasta brisé.

La ricetta: Pissaladière

350 g di farina tipo 0
200 g circa di acqua a temperatura ambiente
5 g di lievito di birra
1 cucchiaino colmo di sale
1 cucchiaio di olio extravergine d’oliva

1/2 kg di cipolle dorate
5 acciughe sotto sale (o sott’olio, in questo caso non saranno da dissalare)
una manciata di olive nere
1 rametto di timo fresco

Sciogliere il lievito nell’acqua e poi impastare con la farina fino ad ottenere un impasto soffice  e non appiccicoso. Aggiungere l’olio e, quando questo sarà assorbito, il sale. Mettere a lievitare in una ciotola unta e coperta da pellicola.
Nel frattempo tritare grossolanamente le cipolle.
Bagnare il fondo di una pentola con un cucchiaio d’olio, poi versare le cipolle e farle dorare a fuoco vivo. Aggiungere un po’ d’acqua per sfumare e lasciare stufare così, regolando infine di sale ed aggiungendo il rametto di timo per profumare.
Pulire le acciughe dal sale e ricavarne dieci filetti.
Snocciolare le olive e tagliarle a pezzi.

Quando l’impasto è raddoppiato, sgonfiarlo e lasciarlo riposare 10 minuti; poi stenderlo in teglia con l’aiuto di un cucchiaio d’olio e lasciar lievitare nuovamente finché non diventa bello gonfio.
Scaldare il forno a 220°, farcire l’impasto con le cipolle e le olive. Far cuocere fino a doratura, poi decorare con i filetti di acciuga e rimettere in forno per un minuto appena.

Nella foto assieme ai filetti di acciuga ho usato, come in alcune varianti, anche dei filetti di sardine sott’olio.

ai fornelli, al cucchiaio, dolci

Flaune de l’Aveyron per giugno e il Calendario Culinario “La France à table”

La regione del Midi-Pyrénées, si trova nel sud ovest della Francia.
Si tratta di un cuore verde, poichè interamente circondata da montagne e percorsa da fiumi e torrenti, tanto che 7 degli 8 dipartimenti che la compongono prendono proprio il nome da uno dei suoi corsi d’acqua.
Il verde è molto presente, con 1 parco nazionale da circa 46.000 ettari di natura incontaminata e 3 parchi regionali all’interno della regione.
I Pirenei sono la frontiera naturale che divide la Francia dalla Spagna, ma al tempo stesso per secoli hanno rappresentato la vicinanza con questo altro regno; è quindi facile immaginare che le contaminazioni culturali siano molte.

La varietà della regione è tale che vi si può trovare di tutto, dalle grotte con pitture rupestri preistoriche, alle più importanti industrie spaziali ed aeronautiche europee; a luoghi carichi di spiritualità come Lourdes o Saint-Bertrand de Comminges, base di partenza per i pellegrinaggi verso Santiago di Compostella, ai luoghi dove è nata la lotta operaia, Carmaux e Jaurès, presso gli impianti minerari che un tempo supportavano l’economia della regione; e poi la pastorizia che si racconta anche nelle attività collaterali come il coltelli Laguiole, le maioliche, i cammini della transumanza oggi divenuti sentieri da trekking.

Da fiaba i paesaggi di alcune località celebri, alcune fra tutte: Rocamadour, dove si trova il Santuario della Madonna Nera;

oppure Montsegur che ricorda la drammatica crociata contro gli Albigesi:

o ancora l’Aiguille du Midi:

Anche gli spunti artistici non mancano: a Montauban nacque Ingres; 84 anni dopo, ad Albi, nacque Toulouse-Lautrec.

I prodotti tipici sono conosciuti internazionalmente, il fois gras in prima fila, poi il tartufo, che l’avvicina un po’ al mio Piemonte, poi il formaggio di capra di Rocamadour, l’agnello del Quercy, l’aglio di
Lautrec, lo chasselas di Moissac, uva da tavola e vino di eccellenza, i porcini.

Tra le ricette, piatti corposi come cassoulet, aligot, garbure, stockfish e
gâteau allo spiedo.

Nel Midi, in particolare nell’Aveyron, in primavera si prepara il flaune. Si tratta di un parente prossimo del più conosciuto flan patissier del nord, confezionato con una sorta di ricotta di pecora, più vicina al brocciu corso che alla nostra ricotta. L’aroma tradizionale di questo dolce è però l’acqua di fiori d’arancio e proprio questo connubio di latticino di pecora + fior d’arancio, fa inevitabilmente pensare alla pastiera. In realtà pare che questa preparazione sia derivata da una ricetta dell’antica Grecia e quindi è normale trovarne delle varianti nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La ricetta pare essersi diffusa in Europa tramite la diaspora ebraica.

La ricetta: Flaune de l’Aveyron
base:
300 g di farina
75 g di burro freddo a cubetti
1 cucchiaio di zucchero
q.b. di acqua fredda con 1 cucchiaino di aceto

ripieno:
500 g di ricotta di pecora
1 uovo intero e 5 tuorli
250 g di zucchero di canna
200 ml di panna fresca
6 cucchiai di acqua di fiori d’arancio

Preparare la brisè sbriciolando velocemente la farina con il burro freddo e lo zucchero. Aggiungere l’acqua fredda di frigorifero con l’aceto ed impastare molto velocemente per non scaldare il tutto.

Per il ripieno mescolare la ricotta con lo zucchero fino a renderla soffice. Aggiungere gli altri ingredienti, mescolando fino ad ottenere una crema omogenea. Profumare con l’acqua di fiori d’arancio.

Stendere la brisè in uno stampo largo 30 cm o in tanti stampini individuali. Riempire ognuno con il ripieno ed infornare a 180° per 45 minuti.

ai fornelli

Galettes complètes per il mese di aprile in Bretagna.

Per il calendario culinario La France à Table oggi viaggiamo fino in Bretagna.
Anche questa volta si tratta di una regione connotata da tempo antichissimo e, in quanto tale, le informazioni su di essa, che siano storiche o leggendarie, sono infinite. 
Scelgo di toccarne un aspetto, perchè scrivere di tutto sarebbe impossibile.
Facciamo un salto di secoli e un viaggio nella fantasia per arrivare ai tempi del Mago Merlino, di Artù e della Dama del Lago.
Nel 1025, il vescovo franco Adalberone mise per iscritto per la prima volta la suddivisione della società medievale: tre ordini separati e distinti, gli oratores, coloro che pregano, i bellatores, coloro che combattono, e i laboratores, coloro che lavorano.
Secondo questa suddivisione che si ritrovava, secondo le teorie, anche nella Città Celeste, i compiti di ognuno erano ben definiti da confini invalicabili: un contadino che si mettesse a combattere, capite, era un sovvertimento dell’ordine divino.
Occorreva quindi che i bellatores si potessero identificare in una figura valorosa e onesta, dal coraggio generosamente messo a disposizione dei più deboli che per natura non potevano combattere o difendersi: nasce la figura del cavaliere che non esita a mettersi in pericolo pur di lottare per una giusta causa.
La propaganda dell’epoca era affidata ai romanzi cavallereschi, che erano recitati, anzi “cantati” nelle corti nobiliari, il riflesso “reale” di questo mondo immaginato.
Due i cicli principali, uno quello guerresco della Chanson de Roland, incentrato sulle gesta dei paladini di Carlo Magno; l’altra di carattere amoroso e più romanzata e avventurosa, celebra le gesta dei cavalieri di Re Artù ed è conosciuto come ciclo bretone, perchè ambientato in Bretagna.
Qui, l’Europa continentale non è così distante dalle isole britanniche, e pare che durante l’ultima glaciazione un cordone di ghiaccio unisse la Bretagna con le terre oltremanica.
Non tutti sanno che la parola da cui deriva il nome Lancillotto ha un preciso significato in antica lingua bretone e significa “errante”, “vagabondo”.
Accanto ai luoghi britannici, come Tintagel e Glastonbury, ci sono i luoghi mitici bretoni a fare il paio: uno su tutti, la mitica foresta di Brocéliande.
A circa 50 km da Rennes, si trova il piccolo villaggio di Paimpont. Da qui si diparte il mitico bosco, che oggi, dopo anni, è conosciuto di nuovo con il suo antico nome.
[immagine da biarritz.net.br]
[immagine da diptyquescrossing.blogspot.com]
[immagine da fotocommunity.fr]
[immagine da voxcalantisindeserto.blogspot.com]

Nel folto della foresta di Brocéliande, secondo la leggenda, si trova l’ultima dimora del Mago Merlino, dove fu ingannevolmente attirato da Morgana ed imprigionato sotto nove strati di pietra.
[immagine da mondodascoprire.myblog.it]
Tra gli alberi secolari si trova anche la mitica fontana dell’eterna giovinezza di Barenton.
[immagine da bretagne-en-3d.com]
Il viaggio prosegue verso l’abbazia di Tréhorenteuc, conosciuta come Tempio del Graal, dove si trovano tantissimi simboli riferiti alle leggende della Tavola Rotonda.
[immagine da boitagato.blogspot.com]
Si giunge al Castello di Comper, vicino al villaggio di Concoret e sede immaginaria del castello di Re Artù, tanto che all’interno delle sale in ogni dipinto è stato trovato un qualche riferimento alla saga.
[immagine da minube.it]
Infine naturalmente il lago di Paimpont sulle cui rive non è insolito trovare ancor oggi qualche moderno druido che ancora compie i propri rituali.
[immagine da tripadvisor.com]
Abbandonando i piaceri per gli occhi e passando al piacere per il palato, arriviamo alle galettes, versione salata delle crepes, con caratteristiche pregnanti in questo luogo di Francia.
La galette bretonne è di grano saraceno.
Non è insolito in questa regione imbattersi in bei campi fioriti di rosa. 
[immagine da map-france.com]
Gli stessi campi che nel XII secolo attirarono l’attenzione dei cavalieri crociati, tanto da spingerli ad importare in Francia le piante e il misterioso seme. Se inizialmente la produzione restò bassa, infine si trovò un luogo adatto a questa coltura, grazie alle frequenti ed abbondanti piogge: la Bretagna.
All’inizio del XVI secolo lo spirito d’iniziativa fu della duchessa Anna di Bretagna che, scoperta la velocità di crescita di questa pianta, solo 100 giorni dalla semina in maggio-giugno alla raccolta in settembre-ottobre, ritenne che potesse essere un ottimo aiuto nel combattere la miseria e la fame. Lo fece quindi seminare in ogni angolo del suo ducato e da quel momento il grano saraceno diventò l’ingrediente principale della galette bretonne.
Il grano saraceno ha una naturale resistenza ai parassiti e richiede solo acqua e sole. Questo fa di lui un perfetto soggetto anche per la moderna coltura biologica.
Alcune antiche ricette di galettes mischiano la farina di grano saraceno con sola acqua. Io ho usato anche le uova, ma solo uno per 125 g di farina. In questo modo la galette è più leggera e si può indulgere nella farcitura. In questo caso ho scelto quella classica, da piatto unico, con l’uovo ad occhio di bue, il prosciutto cotto e il formaggio.

La ricetta: Galette Bretonne Compléte
(per 6 galettes)
125 g di farina di grano saraceno
1 uovo
200 ml di latte
50 ml di acqua 
20 g di burro fuso
1 pizzico di sale
per il ripieno:
6 uova
6 fette di prosciutto cotto
180 g di formaggio (tipo gruyére o emmental)
Sbattere l’uovo con un pizzico di sale. Aggiungere la farina mescolando bene per non fornare grumi, aggiungendo, quando l’impasto si fa troppo consistente, qualche cucchiaio di latte.  Quando si è formata una pastella aggiungere il burro fuso e i restanti latte e acqua. Far riposare l’impasto per circa 2 ore.
In un padellino antiaderente da crepes formare le galettes, più sottili possibili. Ne verranno 6 o 7.
Per la farcitura rimettere una galette nel padellino e completarla con una fetta di prosciutto, un uovo appena fritto e il formaggio grattugiato. Far scaldare e fondere e servire subito.


ai fornelli

Quasi una Tarte Genin, al lime, basilico…e burro, ça va sans dire!

Jacques Genin è una sorta di istituzione a Parigi.
Non un maître chocolatier con qualifiche ufficiali, ma un autodidatta che è diventato nel giro di pochi anni talmente bravo da vedersi richiedere cioccolatini e piccola pasticceria da 200 tra i migliori alberghi e ristoranti francesi
Ha iniziato la sua carriera nel mondo del cibo in un macello, ha aperto il suo primo ristorante a 28 anni e a 33 è diventato pasticcere capo per La Maison du Chocolat, multinazionale azienda dolciaria. 
Pare che il suo babà faccia fare un tuffo al cuore anche ai napoletani più esigenti e che gli eclairs al cioccolato siano una cosa sublie nella loro assoluta semplicità. 
Con queste premesse, arrischiarsi in una sua torta era un pochino pretenzioso ma, dopo esserne venuta a conoscenza grazie a Teresa De Masi su Facebook, sono stata davvero incuriosita dall’abbinamento tra lime e basilico e mi sono lanciata anch’io nella prova. 
La ricetta è stata condivisa sul forum Gennarino, tradotta dal francese con diverse difficoltà di interpretazione riguardo alla farina grau, che poi si è rivelata essere, non farina di avena, ma “fior di farina”, termine per me altrettanto misterioso: si tratta di farina finissima adatta alla pasticceria.
Il suggerimento era quello di utilizzare una farina per frolla, quindi con una forza molto bassa ed eventualmente batterla, per favorire la stesura. Io sono riuscita a stenderla piuttosto sottilmente, tenendola molto fredda e rimettendola in frigo diverse volte, ma il primo tentativo su uno stampo da 20 non si è rivelato buono: la frolla si è letteralmente ristretta, come accade per le maglie di lana messe in lavatrice…e quello che era un bel bordo da 2 cm, è diventato un rialzino quasi inesistente. Ho risteso una frolla, questa volta in uno stampo del diametro di 13 cm; bordo alto, ben levigato, e stampo tenuto in frigo fino al momento di infornare. Fondo bucherellato con la forchetta e fagioli secchi all’interno. Il risultato è stato migliore, ma decisamente lontano dalla perfezione. Anche in questo caso, come potete edere dalle foto, il bordo si è un po’ ritirato. Ora mi stupisce perchè un’elasticità simile non l’avevo mai riscontrata in nessuna delle mie frolla, neanche con le mandorle…e la mia farina aveva un 9% di proteine, quindi era decisamente debole.
Per quanto riguarda il basilico, non è stagione. Al supermercato lo trovate, ovviamente, a prezzi improponibili. Io ho pagato 30 g di basilico la bellezza di 1,50€…lontano dal costo dei lamponi…ma comunque un prezzo eccessivivo quindi ribadisco la mia scelta di usare solo prodotti di stagione…ma questa era una prova e quindi, amen!
Veniamo al curd. In passato una sola prova al mio attivo con il curd (di limone, però!)piuttosto soddisfacente!
Qui lo Chef Genin consiglia di aggiungere il burro solo alla fine, quando la crema è già addensata, facendo una specie di montatura finale. Al contrario di quel che ho letto da Teresa, per me la crema si è gonfiata parecchio ed era abbondante per la farcitura della mia piccola torta (ne è addirittura avanzata) , ma era anni-luce lontana dal risultato di Genin, per quanto ci lasci vedere la foto. La sua è lucida (come un curd, appunto) la mia era montata e quindi decisamente più opaca e soda. Il sapore è delizioso, molto burroso come da aspettativa. Naturalmente la torta di Genin, che io non ho assaggiato, sarà infinitamente più equilibrata e “apparentemente” leggera.
Con la mia tortina da 13, fate delle porzioncine da dessert a conclusione
di un pasto, per 5 persone, a mio parere; e per 4 servite una merenda
abbondante.
La mia è goduriosa ma molto sostanziosa e quindi forse avrei abbinato una crema di questo tipo ad una frolla ben più spessa o a un altro tipo di base.
Come esperimento sono quindi parzialmente soddisfatta…ma il connubio lime-basilico è da tenere presente per altri esperimenti, magari nella stagione del basilico!!
Qui sotto trovate le mie dosi, ma potete fare riferimento alla ricetta originale su Gennarino.org, tradotta da Rosa Tenore di Torte e Dintorni.
La ricetta: Tarte au Citron Vert et Basilic, de Jacques Genin


per la base:
70 g di burro
50 g di zucchero a velo
13 g di farina di mandorle
1/2 uovo sbattuto (pesatelo!)
i granellini di un pezzetto di bacca di vaniglia
125 g di farina 00
1 pizzico di sale
2 uova piccole
85 g di zucchero
la buccia di 1,5 – 2 lime
10 g di foglie di basilico fresco tritate
90 ml di succo di lime filtrato
90 g di burro
zeste di un lime per decorare la superficie
Preparazione della base:
Ho lavorato insieme burro e zucchero con la farina di mandorle. Ho poi aggiunto l’uovo sbattuto con un pizzichino di sale e la vaniglia. Per ultima ho aggiunto la farina e lavorato brevemente, prima di formare un panetto e riporlo in frigo per tutta la notte. Nella lavorazione il consiglio di Teresa è quello di battere la frolla con il mattarello, per facilitarne poi la stesura.
Il giorno seguente ho steso la frolla su un foglio di pellicola, fino a renderla sottile (circa 2 mm). L’ho riposta stesa in frigorifero.
Ho portato il forno a 170°C ed ho imburrato lo stampo.
Ho inserito la frolla nel suo stampo, bucherellato il fondo con una forchetta e pareggiato il bordo (2,5 cm). Ho riposto nuovamente in frigo.
Ho approntato i fagioli secchi e un foglio di stagnola.
Ho tirato fuori dal frigo la frolla, ho completato con il foglio di stagnola e i fagioli secchi ed infornato per 15 minuti. Ho tolto i fagioli e la stagnola, abbassato a 150° e lasciato in forno ancora 10 minuti.
Preparazione della crema:
Ho messo in una casseruola le uova, lo zucchero, le zeste di lime e il succo e il basilico tritato. Ho mescolato bene con una frusta e poi messo sul fuoco dolcissimo, sempre mescolando, finchè la crema non si è raddensata, senza mai arrivare a bollore. Appena densa ho filtrato con un colino. A questo punto, passando per le maglie del colino, la crema sarà già a 45° circa. Ho aggiunto il burro a pezzetti e mescolando l’ho fatto sciogliere. Dopodichè ho proseguito il raffreddamento, montando un po’ con il mixer.
Ho messo la crema in una ciotola e l’ho fatta raffreddare in frigorifero, prima di riempire il guscio di pasta. Ho decorato in superficie con la buccia del lime grattugiata.
ai fornelli

Potage de Morteau, la zuppa più famosa della Franca-Contea

Questo mese, per il calendario La France à table, ci troviamo nella regione della Franche Comtée.

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È una delle poche regioni attuali che corrispondono in parte con un’antica provincia del Regno di Francia, e ciò spiega la forte identità regionale dei suoi abitanti. Prima del 1478 si parlava di una grande Contea di Borgogna, tale da rivaleggiare con il regno di Francia; successivamente ad una divisione interna, si cominciò a parlare di ducato di Borgogna e di Franca Contea.
Terra di confine fin dai tempi più antichi (e tutt’ora confina per ben 230 km con la Svizzera) si trovò spesso in situazioni di guerra e contesa fra popoli ed appartenne di volta in volta al Sacro Romano Impero, al regno di Francia e al ducato di Borgogna, fino al 1678, quando divenne definitivamente francese, dopo un trattato e dopo le perdite della sanguinosa “Guerra dei 10 Anni”.
In Franca Contea troviamo anche alcune attrazioni turistiche che da sole giustificherebbero il viaggio. 
il semicerchio realizzato
La prima è un’opera architettonica di Ledoux, uno dei padri e dei teorizzatori del neoclassicismo assieme a Boullée.
A lui viene commissionato il progetto per le Saline Reali di Arc-et-Senans, all’epoca di basilare importanza, in quanto il sal gemma era fondamentale per la conservazione dei cibi, ma anche per la produzione del vetro, e la gabella sul sale era una delle tasse più impopolari in Francia e probabilmente una di quelle che più scatenò il malcontento dei cittadini alla vigilia della Rivoluzione Francese (…assieme alle storia delle brioches, ovviamente! 😉 )
il secondo progetto
La parte di progetto realizzata, oggi Patrimonio Mondiale dell’Unesco, costituiva solo il nucleo centrale della città che si sarebbe andata a formare. Ledoux, al di là della scenografica impostazione con i colonnati classici, davanti agli edifici, e la forma a circolare del complesso principale, che richiamava le forme greche, aveva previsto una vera e propria città attorno alle Saline, con le abitazioni per gli operai e tutti i servizi, il primo tra tutti, seguito a ruota dai teorizzatori ottocenteschi di villaggi operai accanto alle fabbriche.
Forse il progetto di Ledoux era animato più dall’estremo bisogno di controllo per il prodotto finale, il sale, monopolio di stato e preziosissimo, che da veri propositi filantropici, ma resta un esempio mirabile e perfettamente recuperato, dopo il degrado visto dal 1895 al 1920.
Notre Dame du Haut à Ronchamp
La seconda attrazione è per gli appassionati di architettura contemporanea un vero caposaldo; parlo dell’opera di Le Corbusier, la Cappella di Notre Dame du Haut, costruita a Ronchamp, sul sito dove già in passato si trovava una cappella dedicata alla Vergine. Lo stile non proprio è fra i miei preferiti: essa, progettata e costruita tra il 1950 e il ’55 fa parte della corrente del bèton brut, il calcestruzzo grezzo, poi anche denominata brutalismo. Pochi fronzoli e tutta sostanza, insomma e l’utilizzo di materiali moderni e scarnamente essenziali.
Dal punto di vista della gastronomia, i prodotti tipici della Franche-Comtée sono famosi in tutto il Paese. 
Una breve parentesi la meritano i vini; siamo al confine con la Borgogna e il paragone sembrerebbe scontato, ma in realtà è la Franche Contée a fare la parte del leone, la sola regione al mondo che produca eccellenze in tutte le diverse tipologie di vino: i rossi, i bianchi, i rosé, i gialli e i vini passiti.
Ci sono poi i prodotti tipici. Moltissimi formaggi poichè ci troviamo in una regione a forte vocazione casearia. La Montbéliarde è la razza bovina a prevalenza lattiera più diffusa in Francia, e con il suo latte si producono i principali AOC francesi, tra cui il Comté.
La Belle de Morteau altro non è che una salsiccia di montagna, prodotta sopra i 600 metri ed affumicata e fa concorrenza alla sua corregionale Salsiccia di Montbéliard, che è un po’ più magra e sottile e un po’ meno affumicata.
Per tradizione, la Belle de Morteau viene esposta al fumo di trucioli di legno di ginepro e di altre piante resinose, per almeno 48 ore in tuyé, il nome caratteristico ed intraducibile dei focolari di montagna attorno ai quali si svolgeva la vita quotidiana e dove si affumicava la carne per la conservazione: un processo che durava da qualche settimana ai tre mesi durante l’anno.
Dal 2010 la Belle è diventata IGP e si riconosce per il tassellino di legno che ne chiude un’estremità e per la medaglietta che fa riferimento al produttore. I maiali, tutti nati ed allevati in zona, vengono alimentati in modo tradizionale, senza mangimi.

La ricetta, presa a grandi linee da epicurien.fr e poi modificata nelle dosi, presenta verdure diverse a seconda della stagione, ad esempio ci sono i fagiolini e gli spinaci che io non ho usato. In Francia utilizzano anche la creme fraiche che io ho omesso e una maggior quantità di latte e burro, che io ho ridotto. Ma ricordiamo sempre che si tratta di una zuppa di montagna, energetica e corroborante, sebbene la base sia di verdure povere.
Per quanto riguarda la salsiccia ho cercato una salsiccia affumicata di diametro grossino, circa 3 cm e l’ho lessata in acqua bollente, poi l’ho tagliata a fette e servita di completamento alla zuppa.
La ricetta: Zuppa al formaggio e Salsiccia di Morteau

(per 4 persone):

1 salsiccia di Morteau (o una salsiccia di maiale affumicata)
400 g di patate sbucciate e tagliate a dadi
400 g di cubetti di carote, porri, e cipolla
1 scalogno
100 g di cavolo cappuccio tagliato a striscioline
200 g di latte intero (in origine 500g)
30 g di burro (in origine 40 g di burro e 100 ml di creme fraîche)
1 cucchiaio d’olio 
100 g di Comté grattugiato (si può sostituire con un formaggio di montagna, come la fontina o la toma)
erba cipollina
sale
pepe
noce moscata
In una casseruola ho messo l’olio e il burro, li ho fatti scaldare e vi ho versato tutte le verdure, facendole insaporire per dieci minuti.
Ho ricoperto il tutto d’acqua ed ho aggiunto il latte.
Lasciar cuocere, rimestando di tanto in tanto per circa 40 minuti, senza far bollire, facendo appena fremere il brodo e il latte.
Nel frattempo bollire la salsiccia e tagliarla a fette spesse 2 cm e grattugiare grossolanamente il formaggio.
Passati i 40 minuti, aggiustare di sale, pepe e noce moscata, aggiungere il formaggio grattugiato e rimestare per farlo sciogliere, poi distribuire nelle fondine, completando con l’erba cipollina e le rondelle di salsiccia.

P { margin-bottom: 0È tutto! E se volete provarla, aspetto la vostra versione!
 

ai fornelli, dolci, lievitati, lievitati-dolci, storia & cultura

È l’ora della brioche… quasi francese

Oggi voglio parlare di un personaggio che tutti conoscono: Maria Antonietta, l’ultima regina di Francia che perse la testa durante la rivoluzione del 1789; l’avete sicuramente incontrata sui libri di scuola o, alla peggio, in qualche puntata di Lady Oscar.
Passò un’infanzia felice e relativamente svogliata in Austria, viziata e vezzeggiata anche dalla sua istitutrice, tanto che a 12 anni non sapeva ancora scrivere e non parlava correttamente né il francese, né il tedesco. Conversava però amabilmente in italiano, grazie alla grande ammirazione che aveva per Pietro Metastasio, l’inventore del melodramma, prestigioso ospite alla corte asburgica. La piccola Antoine eccelleva anche in altre arti, come la musica e soprattutto la danza. A due anni aveva contratto il vaiolo, ma ne era guarita e perciò in seguito immune, così ne non ne fu colpita durante la terribile epidemia che colpì anche la famiglia reale nel 1767.
Maria Teresa
Come molte giovani principesse, aveva però una madre ingombrante, che da semplice consorte dell’imperatore Francesco I, era di fatto divenuta la vera e propria imperatrice del gigante asburgico, riconosciuta tra i primi sovrani illuminati ed artefice di una politica articolatissima e moderna. Maria Teresa si era messa in testa, con 16 figli, dei quali ben 10 che arrivarono all’età adulta, di imparentarsi attraverso i matrimoni con i sovrani di tutta Europa. Purtroppo l’epidemia di vaiolo di cui scrivevo sopra ridimensionò i suoi piani. Riuscì a far sposare, prima di Maria Antonietta, Maria Carolina con il re Ferdinando IV di Borbone, detto il Re Lazzarone, che nonostante il soprannome fu un ottimo sovrano per il Regno di Napoli, e Maria Amalia con Ferdinando I di Parma, che non ebbe nomignoli ma fu un pessimo sovrano, complessato e bigotto e si presume pure cornuto.

Ma veniamo alla nostra Maria Antonietta. A 15 anni, molto graziosa, sempre capricciosa e svogliata, ma più educata, partì per la Francia, dopo il matrimonio

Marie Antoinette a 14 anni

avvenuto per procura con il delfino di Francia Luigi, futuro Luigi XVI, goffo, sgraziato e cicciottello. 

Avete presente quei ragazzetti che tutte abbiamo incontrato alle medie, o il primo anno delle superiori? Ragazzetti ancora né carne né pesce, ma che al momento ci sembrano il fascino personificato? Noi lì a sospirare e questi, ancora adolescenti sgraziati e pure presuntuosi, non ci filano neppure per sbaglio, presi da affari molto importanti (vedi calcio, basket, tiro del giavellotto o, nell’ipotesi più rosea, dallo studio). E quasi sicuramente, a rincontrarli oggi hanno subito un tremendo tracollo, grassi e completamente calvi…
Ecco, il futuro Luigi XVI era così, a dire il vero educato da anni di odio nei confronti dell’Austria e degli Asburgo non aveva nessuna voglia di sposare l’Austriaca, così come il popolo soprannominò Maria Antonietta, anch’esso fiaccato da anni di guerre contro l’Austria. Anzi le cronache di corte narrano di una vera e propria repulsione fisica (o paura) nei confronti della giovane principessa, prologo di un matrimonio che non venne consumato se non sette anni dopo.
Nel frattempo parliamo delle condizioni contingenti: una Francia allo stremo, anni di guerre e soprattutto di tasse ingentissime avevano fiaccato la popolazione che non sapeva più con chi prendersela
Con il giovane Re era ancora presto, anche se sappiamo tutti come è andata a finire nel 1789, e pur sempre di un re si trattava…
Chi poteva incarnare quel lusso decadente meglio della bella e viziata Regina, che dava sfarzose feste a Versailles, per consolarsi della disattenzione dello sposo che in realtà era pure bruttino, ben diverso dai ritratti che le avevano inviato in Austria?
Così Maria Antonietta divenne il capro espiatorio di tutte le maldicenze sulla nobiltà di nascita.
E, secondo le nostre maestre delle elementari, fu lei, durante una rivolta di popolani stremati dalla fame, a pronunciare la famosa frase: «S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche», «Se non hanno più pane, che mangino brioche».
 
E invece anche questa fu una diceria messa in giro per screditare la sfortunata regina. E le maestre elementari ci sono cascate come pere cotte.
Jean Jacques Rousseau racconta nel IV libro delle sue Confessioni che nel 1741 si trovava presso una ricca dama e, parecchio affamato, aveva intenzione di comprarsi del pane. Ora fatemi immaginare questo Rousseau che, ospite da una gran dama, patisce la fame… ma erano tutti spilorci ‘sti nobili?
Ad ogni modo, dice Jean Jacques che essendo vestito di abiti sfarzosi, entrare in una comune panetteria gli sembrava azzardato ed imbarazzante.
Dunque, cito testualmente: «Allora mi ricordai il suggerimento di una grande principessa a
cui avevano detto che i contadini non avevano più pane e che rispose:
che mangino delle brioches. Perciò mi comprai una brioche
Rousseau sorvola sul fatto che comprare brioche presuppone entrare in un altro negozio, ma noi facciamo finta di sapere che una pasticceria dell’epoca era ben più raffinata di una panetteria e proseguiamo oltre.
Maria Antonietta è nata nel 1755, quindi nel 1741 non poteva già aver pronunciato la frase incriminata e dunque Rousseau fa sicuramente riferimento ad un’altra principessa, forse Maria Teresa d’Austria, moglie di Luigi XIV.
 
E quindi, giunti a questo punto, possiamo assolvere Maria Antonietta alla quale forse la sfortunata frase venne appioppata sul groppone da quei francesi intolleranti nei confronti dell’Austriaca.
 
Ma vediamola finalmente questa brioche francese che è una cosa spettacolare ed è pure semplicissima da produrre. Nel formato originale è cotta in un unico stampo, con ingenti quantità di burro e uova, spugnosa e sofficissima, con una morbida crosticina dorata, lontana parente del nostro pandoro.
 
Io ho seguito la ricetta delle brioches intrecciate di Ida, Briciole in cucina, riducendo un pochino la quantità di burro ed usando solo la vaniglia per aromatizzare.
Con queste dosi ho ottenuto 6 brioches grandine, che vi fanno arrivare all’ora di pranzo senza un buco allo stomaco. In realtà credo che se ne possano tranquillamente ricavare 8 un poco più piccole. Ho adottato anche l’espediente della lievitazione in frigo per una notte. Vi consente di utilizzare poco lievito ed avere una massa spugnosa e sofficissima!
Naturalmente se riesco a procurarmi uno stampo, proverò ad utilizzare la stessa ricetta anche per il classico brioche-one francese in un unico pezzo.
 
 
La ricetta: Brioches quasi francesi
 (6-8 pezzi)
200 g di farina manitoba
50 g di zucchero a velo
10 g di lievito di birra fresco 
2 uova medie
80g di burro a temperatura ambiente
i semini di mezza stecca di vaniglia
1 pizzichino di sale
 
Per la rifinitura un pochino di latte e granelli di zucchero di canna
 
Ho sciolto il lievito di birra in un goccino di latte.
Ho messo farina e zucchero a velo nella ciotola dell’impastatrice, aggiungendo prima il lievito sciolto e poi gradualmente le due uova con il pizzichino di sale, fino ad ottenere una bella massa. Ho lasciato andare l’impastatrice per un bel po’, almeno un quarto d’ora. Quando la pasta si staccava bene dai bordi ho aggiunto la vaniglia e gradualmente il burro tagliato a cubettini: è importante aggiungere burro solo quando il precedente è stato ben assorbito dall’impasto. Una volta assorbito tutto continuare ad impastare con il gancio per altri cinque minuti. 
Ho deposto l’impasto in una ciotola per la lievitazione, lasciato lievitare fin quasi al raddoppio, poi sgonfiato e deposto in frigo per tutta la notte.
Al mattino ho tirato fuori dal frigo e  portato a temperatura ambiente; ho sgonfiato, ripiegando l’impasto su se stesso, ma senza impastare violentemente.
Poi l’ho suddiviso in 6 pezzi (ma anche 8 possono andar bene); per ogni pezzo ho ricavato 4 palline e le ho messe vicine-vicine in stampi da muffin (quelli di silicone). Ho lasciato lievitare fino al raddoppio e poi infornato.
Ida consiglia di portare la temperatura del forno ventilato a 200°C, mentre le brioches lievitano ancora per una mezz’ora, poi spennellarle con latte e zucchero e metterle in forno abbassando la temperatura a 180°C per circa quindici minuti.
Il modo migliore è controllare costantemente  il grado di cottura e doratura, a seconda del vostro forno.
Ho farcito con crema inglese alla vaniglia. E congelato. E una volta riportate a temperatura ambiente, restano davvero perfette. Fatele! 🙂
 
 
 
 
 

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ai fornelli, ricette tradizionali

Tartiflette, e il calendario “La France à table”

Il nuovo anno comincia alla grande.
Lo scorso gennaio iniziavo timidamente ad usare questa reflex di seconda mano, con poche nozioni di base e, devo dire, una certa diffidenza… i primi scatti e poi 

P { margin-bottom: 0.21cm; }«no, no, no…non mi piace affatto

P { margin-bottom: 0.21cm; }» e il consueto rifiuto che le novità provocano in me, abitudinario segno di terra, con le radici ben affondate nel solido terreno, anche se il vento mi agita i capelli.

Eccoci ad oggi. 
La diffidenza si è trasformata in amore per questo strumento con cui amo giocare. Certo la strada è ancora lunga, inizio solo ora a prendere confidenza con la luce, quella del mio cortile, quella che entra in cucina verso l’ora di pranzo.
Questo è il primo frutto di questo percorso, ed insieme è un’idea per passare insieme tutto l’anno.
http://issuu.com/ricettedicultura/docs/la_france_a___table_-_calendario_20
P { margin-bottom: 0.21cm; }

Per
ogni mese troverete un piatto della cucina tradizionale francese
, cucinato e talvolta rielaborato da me, con una
piccola curiosità sulla sua storia; la ricetta invece sarà sul blog ogni 1° del mese.
Se
vorrete seguirmi nell’avventura, mi piacerebbe se provaste a
reinterpretare il piatto del mese, a modo vostro, tutte le volte che la
ricetta vi ispirerà
. Se l’avete già cucinato in passato segnalatemi nei commenti la vostra versione…così potrò creare per ogni ricetta una
personalissima raccolta di versioni diverse.
Eccoci alla ricetta del mese di gennaio.

Perdonatemi se dopo i bagordi di Natale e Capodanno non pubblico un piatto detox. D’altronde siamo a gennaio, fuori fa freddo, ed è il momento giusto per i caldi piatti della cucina di montagna.

La tartiflette è un piatto nato negli anni ’80, messo a punto dal Syndicat Interprofessionnel du Reblochon, per promuoverne la vendita e l’utilizzo. I francesi dell’Alta Savoia probabilmente non l’avevano mai mangiata prima e se la sono trovata davanti, riproposta in tutti i ristoranti d’alta quota, posti ai limiti delle piste da sci.

Il Reblochon, per contro, è un formaggio molto antico; pare sia stato prodotto in Alta Savoia, in particolare nella zona del massiccio dell’Aravis, già dal XIII secolo, e la storia racconta che la sua “invenzione” sia legata ad una furberia degli allevatori.
Essi dovevano pagare un affitto, per gli alpeggi che occupavano, che era calcolato proporzionalmente in base al latte prodotto. Il giorno in cui era stabilita la misurazione delle “quote latte” essi mungevano un po’ di meno le proprie mucche, per ingannare il proprietario sulla quantità di latte che potevano produrre. Quando i proprietari, concluse le misurazioni, si allontanavano, gli allevatori effettuavano una seconda mungitura, anticamente detta il re-blochait: con questo latte producevano questo formaggio.
Nel 1958 il Reblochon ottiene la AOC, oggi trasformata in AOP, appelation d’origine protegée.
Si tratta di un formaggio a latte crudo, con una pasta morbida color avorio e una crosta dalle sfumature giallino-arancio. Ha un odore molto intenso, come molti formaggi di questa tipologia.
Ne esistono due qualità: il Reblochon latier, prodotto da più partite di latte, e il Reblochon fermier,  più pregiato, perchè prodotto dal latte di una sola fattoria. Inoltre il Reblochon può essere prodotto solo dal latte di alcune razze bovine: Abbondanza, Tarina e Montbéliarde.
Nella stagione dell’anno in cui le vacche sono in alpeggio e si nutrono di erbe, il sapore del Reblochon prodotto è arricchito dagli aromi dei fiori di montagna e dell’erba fresca e grassa dell’estate.
Come spunto per l’elaborazione della tartiflette, dal nome  patois della patata, la tartiflà, è stata scelta un’antica ricetta tradizionale, la pelà: si trattava di patate tagliate a grossi cubi, di solito senza togliere la buccia, e rosolate in padella con cipolla e pancetta, ricoperte poi da Reblochon e fatte cuocere a lungo finchè il formaggio non era sciolto e dorato e il cuore delle patate ben cotto. La preparazione prende il nome dalla padella in cui veniva cotta, la pelà, appunto, una grossa padella con un lungo manico.
Nella tartiflette troviamo gli stessi ingredienti, ma le patate sono prima lessate in acqua, poi sbucciate e tagliate a rondelle. Vengono alternate a strati di cipolla e pancetta e ricoperte infine da uno strato di Reblochon, che in forno andrà a sciogliersi, mentre gli strati si fonderanno ed insaporiranno.
Questo piatto è di una semplicità disarmante e per questo è così buono.

La ricetta: Tartiflette
(per due persone)
2 patate medie
1 grossa cipolla
50 g di pancetta  
circa 1/3 di una formetta di Reblochon
olio evo
sale, pepe
Far lessare le patate in acqua, già sbucciate e tagliate a rondelle, per qualche minuto in modo che si ammorbidiscano, ma restino sode.
Nel frattempo tagliare finemente la cipolla e farla ammorbidire, senza che scurisca, in un paio di cucchiai d’olio. Quando hanno assorbito l’olio, aggiungere la pancetta tagliata a cubetti e mescolare per qualche minuto, a fuoco vivace, assieme alla cipolla.
In due cocottine da forno ho messo le patate a strati intervallati da cipolla e pancetta. In cima ho completato con fettine di reblochon, con tutta la buccia, fino a coprire completamente le patate sottostanti.
Ho infornato a 180° per circa 20 minuti, fino a doratura.

Ed ora che aspettate a provarla?

L’hanno reinterpretata:
Irene di Stuzzichevole: con la verza e la fontina.






 

ai fornelli, buffet salato, storia & cultura

Tarte salata alle tre farine con cavolo cappuccio, pere e Roquefort. La storia del Roquefort, pregiato formaggio francese e una torta salata

Rocquefort
In lingua occitana è il Rocafort, ma ovunque è conosciuto come Roquefort ed è, a detta di molti, uno dei formaggi più buoni al mondo, proclamato da Diderot come       «le roi des fromages».
 

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dal mondo, dolci, Natale, ricette tradizionali, storia & cultura, torte

Galette des Rois per l’Epifania Il dolce parigino dell'Epifania per eccellenza

Oggi non poteva mancare un dolce, per di più dal momento che l’Epifania è l’unica occasione dell’anno in cui questa prelibatezza si dovrebbe gustare: la galette des Rois parisienne.

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