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Disfida Focaccia con due miti del “cibo da strada” ligure

Vi ricordate della giornata alla focacceria Lagrange? E vi ricordate del contest e della mia focaccia genovese-piemontese?

Ecco, con quella focaccia ho catturato l’attenzione di Salvatore Lo Porto e presto (spero) la prepareremo insieme.
Nell’attesa vi racconto cosa è successo il 3 dicembre in un’altra focacceria del circuito, precisamente alla Focacceria Sant’Agostino di via San’Agostino 6 a Torino.

A darsi appuntamento qui, due dei miti liguri del cibo da strada: Biagio Palombo, il mitico Biagio della Baracchetta di Recco, e Vittorio Caviglia, in un momento di godereccia condivisione di saperi.
Biagio della Baracchetta ha portato con sé tutto il sapere maturato in anni di produzione di una delle più buone e autentiche focacce di Recco; Vittorio ha condiviso invece tutte le regole per produrre la farinata perfetta, del giusto spessore, croccante in superficie e morbida all’interno.
Questa disfida tra Farinata e Focaccia di Recco è stata giocata all’insegna della più grande umiltà, con la regola, ripetuta più volte, che alla base di un ottimo risultato c’è un duro e costante lavoro.
Abbiamo scoperto che la focaccia di Recco richiede una buona manualità, ma il segreto sta nell’elasticità dell’impasto e che la farinata vuole soprattutto un buon equilibrio tra gli ingredienti e un forno molto caldo e che sia perfettamente in bolla.
Abbiamo scoperto che le teglie tonde non sono tutte uguali e che richiedono un trattamento speciale.
abbiamo scoperto soprattutto che le cose più buone sono quelle più semplici: pochi ingredienti di qualità e la passione di una vita.

Qui sotto trovate alcune foto della serata e in fondo la mia focaccia di Recco e la mia farinata (prima della disfida focaccia…non credevate mica che vi avrei rivelato tutti i segreti di Biagio e Vittorio?!?).

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La cucina campana di Luigi Lionetti – serata al Caffè Platti

Mercoledì sera ho partecipato alla serata campana al Caffé Platti Luigi Lionetti, chef executive del ristorante Punta Tragara di Capri.
Avevo già introdotto la serata con un post, ma ora, dopo aver  degustato i piatti, voglio dedicarne uno alla cucina e ai prodotti campani utilizzati, tutti prodotti di eccellenza valorizzati al meglio.
La cucina di Luigi Lionetti è semplice; questo non vuol dire sbrigativa, è al contrario accorta e curata, ma in ogni piatto ci sono pochi ingredienti, accostati al meglio, senza la smania di strafare che spesso va di moda tra alcuni chef, che cercano accostamenti arditi con la sola voglia di stupire.
Ciò che cerca Luigi invece è l’estrema valorizzazione del gusto con prodotti di alta qualità e piatti che incarnano il sole della sua terra; nessuna ricetta particolarmente elaborata, piuttosto le ricette della tradizione, riprodotte con cura e attenzione maniacale per il risultato finale che deve essere pulito nel gusto ed impeccabile nella presentazione.
La serata campana proposta da Platti, per il suo percorso di valorizzazione e scoperta della cucina italiana, inizia nel segno dell’eleganza…

…e con profusione di limoni di Sorrento accostate ad incantevoli ceramiche di Vietri.

Il momento dell’aperitivo vede dei frittini misti, serviti in un cuoppo che rievoca quello classico di carta paglia (una volta veniva usata carta di giornale – vi ricordate delle pizzelle fritte e de L’Oro di Napoli?) del cibo da strada, accostato a mozzarelline e ad altri prodotti dell’arte casearia campana.

Lo stomaco freme e finalmente ci sediamo a tavola!

Iniziamo con una zuppetta di fagioli di Controne con scarola saltata e polpo verace alla griglia.

A fare la parte del protagonista il fagiolo di Controne, prodotto nel salernitano e tra le 100 specialità italiane da salvare per Slow Food. Si tratta di una produzione ridottissima, non fatta su larga scala e  dalle qualità eccellenti del prodotto: buccia molto sottile, ammollo breve, chicco che non si spezza in cottura, digeribilità altissima.
Ad accompagnarlo la scarola – il cuore, a dire il vero – tenerissima e con solo una punta di amarognolo, anch’essa facente parte della tradizione partenopea a tavola, e il polpo verace, semplicemente scottato sulla griglia, con tutto il suo sapore, senza inutili sbavature.

Si prosegue con il baccalà confit, adagiato su ricotta di bufala, pomodoro di Corbara e profumo di limoni di Sorrento.

Il baccalà ha consistenza e spessore perfetti. La ricotta arriva da Barlotti, un produttore eccellente, con più di 100 anni di storia; è insaporita e soprattutto profumata dalla scorza di limone di Sorrento, una varietà particolarmente nota proprio per la fragranza intensa, coltivato nell’area di Sorrento, probabilmente già in epoca romana, visto che è raffigutato fedelmente nelle pitture pompeiane. Ancora una nota sul pomodorino di Corbara, dalla caratteristica forma allungata, anche questo originario della costa sorrentina e amalfitana. Coltivato in zone collinari e con l’ausilio di pochissima o addirittura nessuna irrigazione, viene consumato fresco o conservato in grappolo per il consumo invernale.

Il piatto successivo è il risotto mantecato all’olio extravergine di Nocellara del Belice, carciofi arrostiti di Paestum e seppie.

L‘olio siciliano del Belice è anch’esso DOP, con sentori di mandorla e carciofo, quindi perfetto per mantecare il risotto ai carciofi di Paestum, varietà coltivata in zona, dopo le bonifiche operate negli anni ’20 del ‘900. I carciofi sono semplicemente arrostiti, per conservare il loro gusto, con una punta di affumicato.

L’altro primo piatto è rappresentato da I Ravioli Capresi.

Il ripieno è composto da caciotta di latte vaccino e maggiorana; la salsa è un leggero e profumatissimo sughetto di pomodoro Spugnillo del Vesuvio, una delle varietà più preziose di pomodorini a grappolo. Le bacche sono allungate e presentano il caratteristico pizzo; la polpa è soda e la buccia coriacea. Detto anche spungillo o spunzillo, nome che fa riferimento alla particolare conservazione che viene effettuata formando degli spunzilli, appunto, o piennoli, che vengono posti in luoghi ventilati e che permettono di degustare il pomodoro, che si conserva a lungo grazie anche alle alte percentuali zuccherine, fino alla primavera successiva.


Il secondo è di pesce: branzino d’amo scottato sulla pelle alle erbe aromatiche con variazione di verdure di stagione e loro clorofilla.

Un filetto carnoso e sodo, adagiato su un verdurine appena stufate, broccoletti e patate.


Finalmente il momento dell’agognato babà al rhum.

Servito su una crema chantilly e insaporito con fragoline e altri frutti di bosco. La lievitazione perfetta e la mollica alveolata lo rendono leggerissimo ed è impossibile rinunciarci, anche dopo tutte le altre portate.

La serata si conclude con la Torta Caprese, in versione mignon, accompagnata da gelato al latte di bufala.

Per chi non la conoscesse la Caprese è la torta tipica di Capri, composta in parti uguali da cioccolato fondente e farina di mandorle, e resa aerata dall’albume montato a neve. Qui le scagliette di mandorle e il goloso gelato al latte di bufala, bilanciano il caratteristico gusto amarognolo e ci fanno concludere in vera dolcezza.

Impeccabili i vini che hanno accompagnato i piatti, ed impeccabile la direzione di Andrea Sabbia che introduce il nuovo corso del Caffé Platti e presenta il giovane chef protagonista della serata.

Ci lasciano andar via con un piccolo e delizioso omaggio e con tanta curiosità per il prossimo appuntamento, verso la metà di febbraio, con la cucina lucana ed un altro appassionato chef emergente.
ai fornelli, dolci, lievitati, lievitati-dolci, storia & cultura

È l’ora della brioche… quasi francese

Oggi voglio parlare di un personaggio che tutti conoscono: Maria Antonietta, l’ultima regina di Francia che perse la testa durante la rivoluzione del 1789; l’avete sicuramente incontrata sui libri di scuola o, alla peggio, in qualche puntata di Lady Oscar.
Passò un’infanzia felice e relativamente svogliata in Austria, viziata e vezzeggiata anche dalla sua istitutrice, tanto che a 12 anni non sapeva ancora scrivere e non parlava correttamente né il francese, né il tedesco. Conversava però amabilmente in italiano, grazie alla grande ammirazione che aveva per Pietro Metastasio, l’inventore del melodramma, prestigioso ospite alla corte asburgica. La piccola Antoine eccelleva anche in altre arti, come la musica e soprattutto la danza. A due anni aveva contratto il vaiolo, ma ne era guarita e perciò in seguito immune, così ne non ne fu colpita durante la terribile epidemia che colpì anche la famiglia reale nel 1767.
Maria Teresa
Come molte giovani principesse, aveva però una madre ingombrante, che da semplice consorte dell’imperatore Francesco I, era di fatto divenuta la vera e propria imperatrice del gigante asburgico, riconosciuta tra i primi sovrani illuminati ed artefice di una politica articolatissima e moderna. Maria Teresa si era messa in testa, con 16 figli, dei quali ben 10 che arrivarono all’età adulta, di imparentarsi attraverso i matrimoni con i sovrani di tutta Europa. Purtroppo l’epidemia di vaiolo di cui scrivevo sopra ridimensionò i suoi piani. Riuscì a far sposare, prima di Maria Antonietta, Maria Carolina con il re Ferdinando IV di Borbone, detto il Re Lazzarone, che nonostante il soprannome fu un ottimo sovrano per il Regno di Napoli, e Maria Amalia con Ferdinando I di Parma, che non ebbe nomignoli ma fu un pessimo sovrano, complessato e bigotto e si presume pure cornuto.

Ma veniamo alla nostra Maria Antonietta. A 15 anni, molto graziosa, sempre capricciosa e svogliata, ma più educata, partì per la Francia, dopo il matrimonio

Marie Antoinette a 14 anni

avvenuto per procura con il delfino di Francia Luigi, futuro Luigi XVI, goffo, sgraziato e cicciottello. 

Avete presente quei ragazzetti che tutte abbiamo incontrato alle medie, o il primo anno delle superiori? Ragazzetti ancora né carne né pesce, ma che al momento ci sembrano il fascino personificato? Noi lì a sospirare e questi, ancora adolescenti sgraziati e pure presuntuosi, non ci filano neppure per sbaglio, presi da affari molto importanti (vedi calcio, basket, tiro del giavellotto o, nell’ipotesi più rosea, dallo studio). E quasi sicuramente, a rincontrarli oggi hanno subito un tremendo tracollo, grassi e completamente calvi…
Ecco, il futuro Luigi XVI era così, a dire il vero educato da anni di odio nei confronti dell’Austria e degli Asburgo non aveva nessuna voglia di sposare l’Austriaca, così come il popolo soprannominò Maria Antonietta, anch’esso fiaccato da anni di guerre contro l’Austria. Anzi le cronache di corte narrano di una vera e propria repulsione fisica (o paura) nei confronti della giovane principessa, prologo di un matrimonio che non venne consumato se non sette anni dopo.
Nel frattempo parliamo delle condizioni contingenti: una Francia allo stremo, anni di guerre e soprattutto di tasse ingentissime avevano fiaccato la popolazione che non sapeva più con chi prendersela
Con il giovane Re era ancora presto, anche se sappiamo tutti come è andata a finire nel 1789, e pur sempre di un re si trattava…
Chi poteva incarnare quel lusso decadente meglio della bella e viziata Regina, che dava sfarzose feste a Versailles, per consolarsi della disattenzione dello sposo che in realtà era pure bruttino, ben diverso dai ritratti che le avevano inviato in Austria?
Così Maria Antonietta divenne il capro espiatorio di tutte le maldicenze sulla nobiltà di nascita.
E, secondo le nostre maestre delle elementari, fu lei, durante una rivolta di popolani stremati dalla fame, a pronunciare la famosa frase: «S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche», «Se non hanno più pane, che mangino brioche».
 
E invece anche questa fu una diceria messa in giro per screditare la sfortunata regina. E le maestre elementari ci sono cascate come pere cotte.
Jean Jacques Rousseau racconta nel IV libro delle sue Confessioni che nel 1741 si trovava presso una ricca dama e, parecchio affamato, aveva intenzione di comprarsi del pane. Ora fatemi immaginare questo Rousseau che, ospite da una gran dama, patisce la fame… ma erano tutti spilorci ‘sti nobili?
Ad ogni modo, dice Jean Jacques che essendo vestito di abiti sfarzosi, entrare in una comune panetteria gli sembrava azzardato ed imbarazzante.
Dunque, cito testualmente: «Allora mi ricordai il suggerimento di una grande principessa a
cui avevano detto che i contadini non avevano più pane e che rispose:
che mangino delle brioches. Perciò mi comprai una brioche
Rousseau sorvola sul fatto che comprare brioche presuppone entrare in un altro negozio, ma noi facciamo finta di sapere che una pasticceria dell’epoca era ben più raffinata di una panetteria e proseguiamo oltre.
Maria Antonietta è nata nel 1755, quindi nel 1741 non poteva già aver pronunciato la frase incriminata e dunque Rousseau fa sicuramente riferimento ad un’altra principessa, forse Maria Teresa d’Austria, moglie di Luigi XIV.
 
E quindi, giunti a questo punto, possiamo assolvere Maria Antonietta alla quale forse la sfortunata frase venne appioppata sul groppone da quei francesi intolleranti nei confronti dell’Austriaca.
 
Ma vediamola finalmente questa brioche francese che è una cosa spettacolare ed è pure semplicissima da produrre. Nel formato originale è cotta in un unico stampo, con ingenti quantità di burro e uova, spugnosa e sofficissima, con una morbida crosticina dorata, lontana parente del nostro pandoro.
 
Io ho seguito la ricetta delle brioches intrecciate di Ida, Briciole in cucina, riducendo un pochino la quantità di burro ed usando solo la vaniglia per aromatizzare.
Con queste dosi ho ottenuto 6 brioches grandine, che vi fanno arrivare all’ora di pranzo senza un buco allo stomaco. In realtà credo che se ne possano tranquillamente ricavare 8 un poco più piccole. Ho adottato anche l’espediente della lievitazione in frigo per una notte. Vi consente di utilizzare poco lievito ed avere una massa spugnosa e sofficissima!
Naturalmente se riesco a procurarmi uno stampo, proverò ad utilizzare la stessa ricetta anche per il classico brioche-one francese in un unico pezzo.
 
 
La ricetta: Brioches quasi francesi
 (6-8 pezzi)
200 g di farina manitoba
50 g di zucchero a velo
10 g di lievito di birra fresco 
2 uova medie
80g di burro a temperatura ambiente
i semini di mezza stecca di vaniglia
1 pizzichino di sale
 
Per la rifinitura un pochino di latte e granelli di zucchero di canna
 
Ho sciolto il lievito di birra in un goccino di latte.
Ho messo farina e zucchero a velo nella ciotola dell’impastatrice, aggiungendo prima il lievito sciolto e poi gradualmente le due uova con il pizzichino di sale, fino ad ottenere una bella massa. Ho lasciato andare l’impastatrice per un bel po’, almeno un quarto d’ora. Quando la pasta si staccava bene dai bordi ho aggiunto la vaniglia e gradualmente il burro tagliato a cubettini: è importante aggiungere burro solo quando il precedente è stato ben assorbito dall’impasto. Una volta assorbito tutto continuare ad impastare con il gancio per altri cinque minuti. 
Ho deposto l’impasto in una ciotola per la lievitazione, lasciato lievitare fin quasi al raddoppio, poi sgonfiato e deposto in frigo per tutta la notte.
Al mattino ho tirato fuori dal frigo e  portato a temperatura ambiente; ho sgonfiato, ripiegando l’impasto su se stesso, ma senza impastare violentemente.
Poi l’ho suddiviso in 6 pezzi (ma anche 8 possono andar bene); per ogni pezzo ho ricavato 4 palline e le ho messe vicine-vicine in stampi da muffin (quelli di silicone). Ho lasciato lievitare fino al raddoppio e poi infornato.
Ida consiglia di portare la temperatura del forno ventilato a 200°C, mentre le brioches lievitano ancora per una mezz’ora, poi spennellarle con latte e zucchero e metterle in forno abbassando la temperatura a 180°C per circa quindici minuti.
Il modo migliore è controllare costantemente  il grado di cottura e doratura, a seconda del vostro forno.
Ho farcito con crema inglese alla vaniglia. E congelato. E una volta riportate a temperatura ambiente, restano davvero perfette. Fatele! 🙂
 
 
 
 
 

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Due serate per degustare (e celebrare!) l’Eccellenza Campana

Chef Luigi Lionetti

Oggi parliamo di cucina campana, e non solo di quella tradizionale, ma di una cucina innovativa, frutto delle ricerche e della sperimentazione del giovanissimo Chef Luigi Lionetti, classe 1984. Il cuoco caprese, con una veloce e folgorante carriera alle spalle è oggi Executive Chef del ristorante dell’Hotel Punta Tragara, 5 stelle lusso di Capri, a due passi (o meglio a due bracciate) dai Faraglioni. Il suo sogno è quello di proseguire nell’eccellenza e di avere un giorno un ristorante proprio, aiutato dai figli (ora due bimbi di 5 e 3 anni) e dagli altri componenti della famiglia, votati alla buona cucina e ai buoni prodotti di un territorio che ne è ricchissimo.

Questa settimana, mercoledì 22 e giovedì 23 gennaio a partire alle ore 20,00, Luigi Lionetti sarà ospite del Caffé Platti di Torino, e regista di una serata all’insegna dell’ Eccellenza Mediterranea. Fagioli di Controne, pomodori di Corbara e Spugnilli del Vesuvio, extravergine d’oliva di Nocellara del Belice, limoni di Sorrento, sono solo alcuni degli attori del menù da lui studiato per l’occasione.

Questo il menù della serata, dove tradizione e innovazione si fondono:

Aperitivo di benvenuto

Zuppetta di fagioli di Controne, scarola saltata e polpo verace alla griglia 
Baccalà confit, ricotta di bufala “Barlotti”, pomodoro di Corbara e profumo ai limoni di Sorrento
 
Risotto mantecato all’olio extravergine di oliva di Nocellara del Belice, carciofi arrostiti di Paestum e seppie 
I Ravioli Capresi, ripieni di caciotta di latte vaccino e maggiorana, salsa di pomodori “Spugnilli del Vesuvio”
 
Branzino d’amo scottato sulla pelle alle erbe aromatiche, variazione di verdure di stagione e la sua clorofilla
 
Babà al rhum, crema chantilly e fragoline di bosco 

Dall’antica tradizione: Torta di mandorle caprese con gelato al latte di bufala

I vini in abbinamento saranno: 
Fiano di Avellino “Pietra Calda” 2012 – Feudi di San Gregorio
Lacrimarosa 2012 – Mastroberardino 
Passito Eleusi – Villa Matilde
(il costo della serata è di 65€/vini inclusi)
Le due serate di mercoledì e giovedì fanno parte del programma 2014 di rinascita del Caffè Platti, uno dei più famosi caffé storici di Torino.
Il locale aprì i battenti nel 1870, come liquoreria in posizione di prestigio, in uno dei grand boulevard di Torino, quello che sarebbe di lì a poco diventato corso Vittorio Emanuele II.
Presto rilevato da Ernesto e Pietro Platti, nel 1902 fu oggetto di un restyling sull’onda della nascente corrente liberty che grazie all’Esposizione Universale si stava fortemente affermando a Torino. 
Tutto al suo interno parla ancora di quell’epoca dorata e scintillante. Bellissimi, e vere e proprie opere d’arte, sono i banconi e le boiseries, ma anche i tavolini in ghisa e marmo e quelli in marmo rosso di Verona. Nel complesso l’arredamento, tutto di celebri manifatture, ci riporta ad un’epoca compresa tra gli anni ’10 e gli anni ’20 del XX secolo. 
Il locale fu fortunatamente risparmiato dai danni del Secondo Grande Conflitto e fu per anni il ritrovo di molti torinesi celebri, tra cui Luigi Einaudi, Giovanni Agnelli, Cesare Pavese.
Questo luogo carico di ormai quasi 150 anni di storia, oggi sotto la nuova direzione di Andrea Sabbia è un locale per ogni ora del giorno, dalla colazione, al bancone o ai tavolini, all’ora di pranzo, con la formula Platti Bistrot a piccoli prezzi, fino al più tradizionale Platti Buffet nelle salette al primo piano; e poi ancora all’ora dell’aperitivo, fino alle 21, fino a diventare Gran Buffet per il brunch domenicale.
E naturalmente Platti è anche Atelier del Gusto, cornice di questo primo incontro dedicato alla Campania, con lo chef Luigi Lionetti, e gli altri che seguiranno (a febbraio sarà la volta della Basilicata), con grandi chef e prodotti di eccellenza di ogni singola regione italiana.
Io parteciperò alla serata inaugurale di domani sera, grazie al cortese invito di Antonella Bentivoglio d’Afflitto, che molti di voi conosceranno per aver organizzato le prime due edizioni della Cena in Bianco di Torino; napoletana DOC, è curatrice per Platti della comunicazione sul web e sui canali social.

Se siete curiosi di assaggiare, non vi resta che prenotare subito! 
ai fornelli, ricette originali

Crostata con noci, nocciole e mandorle e confettura di frutti rossi, per il contest Dans la Croyance

http://gattoghiotto.blogspot.it/2013/12/4-anni-di-blog-e-super-mega-contest.html
Ambra del blog Il Gattoghiotto compie 4 anni di blog e festeggia con un bellissimo contest incentrato sulle torte che preferisco: Dans la Croyance, celebra le torte da credenza,
le belle torte semplici che non hanno bisogno del frigo e che hanno un
profumo e un sapore di rustico e autentico, e visto che i premi sono bilance Salter, consiglio anche a voi di partecipare!
A me l’ispirazione è venuta dalla spongata, dolce natalizio emiliano, conosciuto anche a Massa Carrara e La Spezia, per poi approdare ad un dolce completamente diverso, con tutti i gusti che amo di più: la consistenza della farina di farro, la frutta secca, la marmellata di fragole e lamponi. Metà crostata e metà torta, la superficie è decorata da dischetti della stessa frolla della base. Per esalatare il gusto delle nocciole ho aggiunto un cucchiaino di cacao, ma non ne va di più, perchè il gusto non diventi predominante. Con la frutta secca ci si può sbizzarrire, anche scegliendone un solo tipo, per avere un gusto predominante: l’importante è non tritarla troppo fine, per non perdersi il piacere di “sgranocchiare”!

La ricetta: Crostata con noci, nocciole e mandorle e confettura di frutti rossi
per la base di frolla alle nocciole:
200 g di farina di farro
40 g di nocciole tritate (non troppo finemente)
80 g di zucchero
1 uovo
120 g di burro 
1 cucchiaino di cacao
1 pizzico di sale
latte
200 g circa di marmellata di fragole e lamponi
per la farcitura di frutta secca:
1/2 uovo (o poco più)
40 g di zucchero
60 g di sablé sbriciolata
40 g di noci
40 g di nocciole
40 g di mandorle
Per prima cosa preparare la base: mescolare la farina e le nocciole con lo zucchero, poi sabbiare con il burro freddo di frigo. Aggiungere poi l’uovo, leggermente sbattuto con un pizzico di sale, e il cacao e lavorare rapidamente per formare un panetto. Confezionarlo in pellicola trasparente e tenere al fresco per mezz’ora.
Stendere l’impasto e ricavare il fondo della crostata da 21 cm di diametro. Stendere in una teglia imburrata o foderata di carta forno e ricoprire con carta forno e fagioli secchi. Cuocere il fondo in bianco, in forno caldo a 180°C per 15 minuti. Dagli avanzi di frolla ricavare tanti cerchietti del diametro di 2-3 cm. 
Tenere da parte i cerchietti necessari a coprire la circonferenza della crostata, ed infornare gli altri che verranno poi sbriciolati nel ripieno.
Passati i 15 minuti, togliere la carta forno e proseguire la cottura fino a leggera doratura del fondo.
Per il ripieno tritare la frutta secca al coltello, spezzettandola grossolanamente. Sbattere l’uovo con lo zucchero e mescolarvi i frollini ridotti in farina.
Distribuire la marmellata di frutti rossi sul fondo di frolla e poi distribuirvi sopra la frutta secca sbriciolata. Coprire il tutto con la miscela di uovo e zucchero e formare il bordo con i dischetti di frolla crudi preparati poco prima. 
Infornare a 180° per circa 25 minuti e controllare il grado di cottura prima di sfornare.
Lasciar raffreddare e cospargere di zucchero a velo e conservare, naturalmente, …nella credenza!
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Mercatini Natalizi all’Enoteca Regionale del Moscato

Anche Mango con la sua Enoteca Regionale “Colline del Moscato” ha avuto i propri Mercatini Natalizi.
L’idea è nata vedendo quante iniziative analoghe si stavano svolgendo nei paesi limitrofi: anche il castello di Mango, con i suoi bei soffitti voltati e le sue mura spesse e cariche di storia, doveva per un weekend vestirsi a festa e fare spazio agli espositori.
La scelta è caduta sull’ultimo weekend prima di Natale, per concomitanze con altri eventi nel paese e nelle vicinanze. Molti erano certamente impegnati con le ultime corse ai regali e con l’inizio delle preparazioni per la vigilia di Natale, ma coloro che sono passati al castello hanno trovato tante opportunità per calarsi in un’atmosfera natalizia d’altri tempi, grazie alla musica e ai numerosi ospiti.

In particolare la giornata di domenica ha visto tra i protagonisti i trottolai di
Roccavignale, un piccolo borgo ligure, che sono arrivati con le loro affascinanti trottole a
filo, un gioco antico di almeno 6000 anni, con tutta l’attrezzatura
necessaria a costruirle sul momento. 
Se non siete muniti di un tornio, sappiate che vi serve un vecchio motore da lavatrice e decisamente tanta abilità manuale, ma potete imparare anche voi a costruire trottole di legno…forse non così minute e precise come queste di osso, che sono contenute da un guscio di nocciola vuoto: ce ne staranno almeno una trentina.
Per i bambini, oltre al lancio delle trottole, c’erano due laboratori creativi: quello di decorazione di biscotti, tenuto da Paola Solazzi e quello di pupazzetti di pasta al sale con Bruna Stupino.
 
Per chi lo desiderava c’era la possibilità di passeggiare intorno al castello a dorso d’asino, grazie alle splendide e docili bestie dell’Azienda Agricola Pavaglione, abituate al trekking con i bambini.

A fare il loro figurone alcuni membri della Confraternita della Nocciola, abbigliati con il loro scenografico mantello, con la proiezione di un filmato sulla Tonda Gentile delle Langhe.

Tanti banchetti di esposizione e vendita, con prodotti enogastronomici ed artigianato e tanta musica hanno accolto i visitatori, fino al culmine della giornata, la degustazione guidata di Moscato d’Asti DOCG come sempre condotta magistralmente da Lorenzo Tablino. Non solo degustazione, dunque, ma tante curiose note sul Moscato d’Asti e sull’Asti Piemonte, sulla loro storia e sui produttori; qualche curiosità sugli abbinamenti ed infine la presentazione ancora non ufficiale della raccolta di ricette dei foodbloggers che quest’estate si sono messi in gioco con una bottiglia di Moscato e tantissima fantasia, promossa dall’Enoteca Regionale del Moscato in collaborazione con Ricette di Cultura, Cucina Precaria e Due Cuori e una Forchetta.
Avremmo voluto avere più tempo, per dare anche noi il nostro contributo con qualche ricetta, ma il lavoro è proseguito lesto con il supporto e l’abnegazione di Renata Bonacina dell’azienda agricola Ca’ ad Balos, finanziatrice del progetto grafico e della stampa.
L’obiettivo era quello di mettere in vendita il prodotto già ai mercatini natalizi. Io e Anna ci siamo occupate della raccolta delle immagini, di far da tramite con l’agenzia che si è occupata della grafica e soprattutto di uniformare i testi.
Ecco una piccola anteprima del libricino:

I proventi della vendita verranno utilizzati innanzitutto per pagare le spese di elaborazione e di stampa. In futuro si spera che il libricino possa essere diffuso in enoteche e cantine per promuovere l’uso del Moscato d’Asti DOCG in cucina, in modo che non sia più relegato a vino da dessert ma che conosca una fortuna a tutto pasto!

La presentazione ufficiale sarà in primavera: forniremo a tutti le indicazioni per partecipare!

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Polpettine di salsiccia e mela con salsa agrodolce

Questa ricetta è una rivisitazione di una ricetta de La Cucina Italiana di gennaio 2012.
Io ho utilizzato della salsiccia in proporzione minore alla carne tritata che era prevista per la ricetta, ed ho aumentato la quantità di pane ammollato nel latte. Ovviamente trattandosi già di una carne grassa ho omesso mortadella e pancetta previste nella ricetta originale. Per quanto riguarda le mele ho usato delle Golden, che ben si prestano alle preparazioni salate, sia per la loro dolcezza ed assenza di acidità presente ad esempio nelle mele granny, sia per la buona consistenza, al contrario di alcune mele rosse. Ho preferito una cottura in forno infine, invece della frittura.
La salsa, copiata dalla ricetta originale, è davvero da provare: il giusto grado di agro e la giusta dolcezza senza essere stucchevole, secondo me starebbe benissimo anche accanto a della carne grigliata.

La ricetta: Polpettine di salsiccia e mela con salsa agrodolce
250 g di salsiccia
60 g di pane raffermo
1 bicchiere di latte
2 mele Golden
100 g di aceto (bianco o di mele)
50 g di zucchero
alloro
ginepro
peperoncino
1/2 bicchiere di brodo vegetale (o di bucce di mela)
sale
pepe 
per impanare le polpettine farina, uovo, pangrattato
Tagliare una mela a cubetti di un centimentro di lato e saltarla in padella con un filo d’olio per 4 minuti.
Sbriciolare la salsiccia e, in un recipiente capiente, mescolarla con i dadini di mela e con il pane, precedentemente fatto ammollare nel latte. Aggiustare con un spolverata di pepe.
Far riposare e insaporire questo composto dieci minuti, poi formare le polpettine, piccole come grosse noci. Passarle nella farina, poi nell’uovo sbattuto ed infine nel pangrattato. Disporle in una teglia da forno larga su carta da forno precedentemente oliata.
Infornare in forno già caldo a 190°finchè non sono dorate, rigirando da tutti i lati.
Preparare la salsa: in una casseruola mettere 80 g di aceto e 50 g di zucchero; far caramellare, poi aggiungere altri 20 g di aceto, 2 foglie di alloro, 2 bacche di ginepro pestate e peperoncino essiccato.
Aggiungere una mela tagliata a pezzetti e poi bagnare con il brodo vegetale. Quando le mele cominceranno a disfarsi la salsa sarà pronta: togliere le bacche e le foglie di alloro e frullare il tutto.
Ho servito con l’accompagnamento di un’insalata di radicchio.

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Soppa tal qara ahmar da Malta per l’Abbecedario Culinario d’Europa

Questo mese per l’Abbecedario Culinario d’Europa tocca a Malta, paese ospitato dal blog Torta di Rose.
Inizio col dire che è un piccolo stato che mi affascina infinitamente, così, circondato dal mare, un arcipelago formato da tre isole. Si trova solo a 80 km dalla Sicilia e vicinissimo (si fa per dire, circa 300 km) dall’Africa. 
Il clima è caldo tutto l’anno, d’inverno la temperatura media è di 12° C e il sole la bacia per 3000 ore annue e deve essere davvero bello abitarci visto che Malta è lo stato più piccolo e densamente popolato di tutta l’Europa.
Le dominazioni si sono succedute nei secoli passati ed hanno fatto di Malta uno stato via via, fenicio, greco, cartaginese, romano, arabo, normanno, aragonese, francese ed inglese, senza scordare la più importante dominazione quella dei famosi Cavalieri di Malta: erano cavalieri monaci benedettini, costituiti come Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, durante la prima Crociata in Terra Santa, vassalli del Regno di Sicilia, stabiliti a Malta dal 1530, dopo la cacciata da Rodi, e fino al 1798, quando Napoleone, che come è risaputo era tutt’altro che religioso, li espulse dall’isola.
Dall’isola, i Cavalieri di Malta, con poche navi, ma con doti eccezionali di navigatori osteggiavano le razzie dei corsari ottomani attraverso il Mediterraneo. Attirarono le loro ire e furono cinti d’assedio nel 1565. Dopo 4 mesi i difensori di Malta erano ridotti da 9000 a 600. I turchi vennero finalmente messi in fuga dai rinforzi provenienti dalla Spagna, ma solo dopo aver perso 30000 uomini.
A quel punto, poichè era in rovina la vecchia capitale Mdina, fu necessario costruire una nuova capitale, e per farlo venne chiamato un ingegnere italiano, Francesco Laparelli, che per la vita interessante meriterebbe da solo un post tutto per sé, e che aveva già lavorato al Vaticano e Castel Sant’Angelo ed era validissimo ma anche “raccomandato” dal Papa. 
Jean Parisot de la Valette
La Valletta, che prese il nome dal Gran Maestro dell’Ordine, Jean de La Valette, nell’immagine qui accanto con un sobrio abito, fondata quindi nel 1566, venne edificata negli edifici di base nel giro di un paio d’anni, ed era completamente fortificata nel 1571, alla vigilia della famosa Battaglia di Lepanto, con attenzione estrema al progetto, con strade perpendicolari e tutte le caratteristiche di una città all’avanguardia per l’epoca. Nel giro di 15 anni, anche la cattedrale e le altre fortificazioni, furono ultimate, fatto straordinario se pensiamo alle fabbriche del Duomo di Milano o di Notre Dame. Oggi è Patrimonio Mondiale dell’Unesco, ma all’epoca della sua fondazione il promontorio era completamente deserto, una roccia della penisola del Monte Sceberras, a picco sul mare, con due insenature naturali molto profonde ed adattissime a divenire porti.
Laparelli ebbe la possibilità di progettare la città perfetta e un complesso sistema di infrastrutture: tubazioni per portare l’acqua fresca in tutta la città, il miglioramento delle condizioni igieniche attraverso le fognature ed addirittura una sorta di condizionamento dell’aria attraverso le strade strette per la particolare angolazione, rispetto alle coste, con la quale furono tracciate. La bella città finì per attirare gli abitanti delle isole vicine, non solo per la sicurezza dei suoi bastioni, ma anche per le ottime condizioni abitative.
Veduta di La Valletta del 1680

Intorno al 1630 La Valletta ospitò Caravaggio, che era stato accolto nell’Ordine dei Cavalieri di Malta per le sue doti di artista ed era in fuga da Roma, dove aveva ucciso un uomo nel corso di una rissa; anche a Malta, però, finì per mettersi nei guai e dovette scappare di nuovo!

Dopo Napoleone e la Francia nel 1798, l’arcipelago di Malta venne preso dagli inglesi per la sua posizione strategica lungo le rotte tra Gibilterra e l’istmo di Suez.
A Malta si sviluppò un forte sentimento filoitaliano dagli inizi del ‘900, con un vero e proprio picco nel 1919, quando l’esercitobritannico fece fuoco su un gruppo di manifestanti maltesi, scontenti per alcune tasse troppo alte. L’episodio è commemorato ancora oggi come Sette Giugno (in italiano), ed è festa nazionale. La simpatia maltese per l’Italia venne ancora repressa nel 1934, quando venne eliminato l’italiano dall’elenco delle lingue ufficiali a favore dell’inglese e del maltese. eppure ancora oggi molti lo parlano,
o quanto meno lo comprendono, potere dei canali tv italiani, che dalla Sicilia si prendono fin lì.
Malta ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1964 e dieci anni dopo diventò Repubblica.

Per la ricetta da presentarvi sono andata a cercare qualcosa che avesse un sapore tutto mediterraneo. Mi è balzata agli occhi questa zuppa, che unisce il pomodoro e la zucca al semolino, molto usato nei piatti mediorientali.

 

Non fatevi impressionare dal nome maltese, è semplicissima da preparare e diversa dalle solite creme di zucca, per l’equilibrio che l’acidulo pomodoro conferisce al dolce ortaggio autunnale e per la consistenza che ricorda un po’ una morbida polentina.

Se volete accompagnarla in modo tradizionale, preparate per tempo il tipico pane maltese a lievitazione lunga e a tre tempi.
[le immagini e le informazioni sono estrapolate da wikipedia, visitmalta.com e da ilovefood.com.mt]
La ricetta: Soppa tal qara ahmar (zuppa di zucca e pomodoro con semolino)
(ricetta leggermente modificata da http://www.ilovefood.com.mt)
ingredienti per 3 porzioni:
450 g di zucca, pulita e tagliata a cubi
250 g circa di polpa di pomodoro
35 g di semolino
1  cipolla 
1 cucchiaio di olio
Sale e pepe
Parmigiano grattugiato
3 fette di pane a cubetti e tostate in forno 
Ho sminuzzato finemente la cipolla e l’ho messa a dorare in un cucchaio abbondante d’olio, rigirando continuamente. Ho aggiunto il pomodoro e la zucca a cubetti ed ho lasciato insaporire per 5 minuti, mescolando continuamente. Poi ho aggiunto circa 1/2 litro d’acqua ed ho portato ad ebollizione. Ho regolato di sale e di pepe e lasciato cuocere, scoperto, finchè la zucca non era morbida, finchè quindi non potevo infilzarla facilmente con la forchetta.
Ho frullato il tutto e riportato ad ebollizione. A questo punto ho aggiunto a pioggia il semolino e fatto cuocere, sempre mescolando, per dieci minuti circa, a fuoco lentissimo.
Servire, non troppo bollente, con i cubetti di pane tostato e parmigiano a parte.

ai fornelli, ricette originali

Strudel salato con broccolo romanesco e pomodori secchi

Niente di più semplice e  veloce.
Di solito per le preparazioni salate utilizzo la brisé, ma per lo strudel salato no, ci vuole la pasta sfoglia che resta ricca e friabile intorno alla verdura.
Non aggiungo mai il formaggio, che trovo appesantisca troppo la composizione. Solo verdure, e tra queste prediligo i broccoli, in particolare il romanesco, dal gusto più delicato, che hanno una consistenza morbida che svolge la stessa funzione legante del formaggio.
Questa volta per insaporire ho aggiunto le acciughe e i pomodori secchi.

La ricetta: Strudel
ingredienti per 2 persone:
1/2 broccolo romanesco lessato
2 filetti di acciuga sott’olio
1 manciata di pomodorini secchi
olio evo
sale
1 spicchio d’aglio
1 peperoncino essiccato
1/2 rotolo di sfoglia rettangolare
Ho messo ad ammorbidire i pomodori secchi in una tazza di acqua tiepida.
In una padella ho fatto scaldare l’olio con lo spicchio d’aglio pelato e il peperoncino schiacciato. Poi ho aggiunto le acciughe, le ho fatte sciogliere battendole con il cucchiaio di legno. Ho messo i broccoli in padella e li ho fatti insaporire con i pomodori secchi, rigirando di tanto in tanto ed aggiungendo qualche goccino d’acqua. 
Quando i broccoli sono più morbidi, ma asciutti, dopo circa 6-8 minuti in padella, li ho fatti raffreddare ed infine ho farcito la sfoglia, arotolandola con l’aiuto di carta da forno.
Ho infornato a 190° per circa 20 minuti, o fino a doratura.

Lasciar intiepidire 5 minuti prima di tagliare a fette e servire.

ai fornelli, ricette tradizionali

Re-cake: la Classic Lemon Cheesecake

So di fare un torto a molti pubblicando un dolce proprio in questi giorni di propositi di dieta…ma da quando ho scoperto re-cake non ho altro in testa che partecipare alla raccolta n°4, quella del mese di gennaio, con protagonista una torta classica della tradizione americana: la classic lemon cheesecake.
Non sono mai stata una fan delle cheesecakes cotte, e neppure delle torte di ricotta…ma a quanto pare i gusti cambiano e dopo averne cucinata una a inizio dicembre durante la preparazione del mio calendario 2014, che si rifà alla tradizione francese, questa, dallo spiccatissimo gusto di limone, mi attirava proprio.
Si tratta di una “Signora Tortona”, alta e imponente come vuole la tradizione.
Tra le rielaborazioni concesse dalla raccolta c’era però la possibilità di farne delle porzioni più piccole. Io avrei intenzione di provare a congelarle…non so se sia una buona idea, ma ci provo e vi faccio sapere!
Con i miei ramequin, una porzione di torta può essere divisa in due, per una romantica e “caloricamente contenuta” conclusione del pasto.
Ho dimezzato le quantità iniziali degli ingredienti, per ottenere 5 piccole cheesecake in 5 ramequin del diametro di 9,5 cm. L’altezza della torta è un poco inferiore allo standard, ma è bilanciata con l’altezza della base e  la consistenza è proprio quella della classica cheesecake al forno!
Per quanto riguarda le variazioni concesse, non ho usato l’estratto di vaniglia perchè non lo avevo in casa, ho aggiunto invece una grattugiata di buccia limone anche nella base.
Per ciò che riguarda la rifinitura, a discrezione di ognuno, purchè fosse bianca o chiara, ho scelto di non mettere panna montata, vista la quantità di latticini presente già nella
crema; ho usato semplicemente della glassa al limone,
da far colare sulla superficie e sui bordi delle tortine una volta
fredde, e qualche zesta di limone, sottile-sottile in superficie.
La ricetta: Re-cake n° 4, Classic Lemon Cheesecake

 
ingredienti per 5 ramequin (diametro di 9,5 cm, altezza 5,5 cm):
70 g di farina 00
25 g di zucchero
40 g di burro 
1/2 cucchiaino di buccia di limone grattugiata
200 g di ricotta
215 g di formaggio quark
2 uova
150 g di zucchero
30 ml di succo di limone
la buccia grattugiata di 1 limone
1 cucchiaio scarso di maizena
1 cucchiaiNO di acqua
per la finitura (per ogni cheesecake)
1 cucchiaio di zucchero a velo
poche gocce di limone per volta, fino ad ottenere la consistenza desiderata.
Preparazione:
Ho preparato la base mescolando farina, zucchero, burro freddo a dadini e buccia di limone, come per creare delle briciole di crumble. Ho messo 2 cucchiai di composto in ogni ramequin, foderato sul fondo da un dischetto di carta forno, fermata da una goccia di burro, e l’ho schiacciato per bene con il dorso del cucchiaio stesso. Ho infornato a 160° per circa 25 minuti.
Ho preparato il ripieno mescolando con cura i due formaggi con lo zucchero; ho aggiunto la buccia di limone, le uova, una per volta, ottenendo un composto omogeneo. Poi ho aggiunto anche il succo di limone.
Ho sciolto la maizena nel cucchiaino d’acqua ed ho ammorbidito ulteriormente con qualche goccia di limone. Ho amalgamato il tutto al composto di formaggio e uova.
Quando le basi erano cotte, le ho lasciate raffreddare fuori dal forno per cinque minuti; Ho verificato che non si fossero attaccare ai ramequins, neppure sul bordo ed ho aggiunto delle strisce di carta forno sul bordo. Ho poi colmato ogni ramequin per due terzi della sua capienza con il compostodi formaggio, limone e uova.
Ho infornato a 170° C ventilato per 45 minuti. Se le cheesecakes scuriscono prima di cuocere, (prova stecchino) abbassare leggermente il forno e coprirle con alluminio. A cottura ultimata lo stecchino esce ancora leggermente umido, ma la cheesecake è soda!
Ho tenuto ancora in forno spento per dieci minuti, poi ho fatto raffreddare ed estratto con molta delicatezza dai ramequins. 
Ho decorato con la glassa al limone, ottenuta sciogliendo lo zucchero a velo in poche gocce di succo di limone, aggiungendone poche per volta, fino ad ottenere la viscosità che desideravo. Ho completato con sottili zeste di limone.
Le cheesecake sono da servire fredde di frigo.
NB. L’ideale sarebbe avere dei piccoli stampi a cerniera; io non li avevo e
mi sono dovuta ingegnare con un cerchio di carta forno sul fondo ed una
striscia sul bordo. Ho provato anche a cuocere una delle cheesecake
senza striscia di carta sul bordo. L’ho staccata con il coltello ed il
risultato non è precisissimo ma passabile: è invece indispensabile il
cerchietto di carta sul fondo.

E adesso?
Non vedo l’ora che arrivi il prossimo mese…